domenica 22 giugno 2014

The Devil in Miss Jones (G. Damiano, 1973)

The Devil in Miss Jones è, probabilmente, il titolo di maggior pregio d'una stagione irripetibile nella storia del cinema: quella della Golden Age del porno, tra l'inizio degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, prima dello sciagurato avvento del VHS. Gerard Damiano, che aveva già diretto Deep Throat, un anno prima, anche in questo caso in veste di sceneggiatore e montatore, oltre che di regista, raggiunge qui uno dei suoi vertici espressivi, elevando il porno ad una dignità che, dopo la prima metà degli anni Ottanta, non si ripeterà più, salvo le poche incursioni nell'hardcore da parte di autori provenienti dal cinema più colto (non ultima, quella di Lars von Trier con il suo Nymph()maniac), sebbene con registri diversi.

In Miss Jones, Damiano parte dal tòpos freudiano che contrappone Eros e Thanatos, in Jenseits des Lustprinzips (1920). L'espediente adottato per l'esordio del film è quanto di più straniante di possa immaginare in una pellicola porno, e cioè la morte violenta, il suicidio della protagonista. In un'atmosfera livida e angosciante, sostenuta dalla suggestiva musica di Alden Shuman (all'epoca si facevano le cose in grande!), Georgina Spelvin, nei panni di Justine Jones, in un supremo atto di autodeterminazione, si taglia le vene e si lascia morire nella vasca da bagno. Altrettanto spiazzante è il fatto che la protagonista del film non sia affatto avvenente. La faccia è (apparentemente) struccata, segnata dall'angoscia, dal dolore, dagli anni; e il corpo è abbondante e ordinario. Queste scelte stilistiche sono fondamentali, a mio avviso, nella decostruzione di quel male gaze che - secondo Laura Mulvey - caratterizza il cinema da sempre, e che nel porno raggiungerebbe il suo punto più estremo. Ebbene, non in Miss Jones. Che, se non costituisce una rivoluzione dello sguardo in versione female gaze, gli si avvicina tuttavia moltissimo.

Justine (nomen omen) muore e, prima di raggiungere la sua "destinazione finale", staziona nella camera d'un traghettatore, per le "formalità" del caso. Nonostante sia vergine (sic!), non è stata perdonata per il peccato più grande: essersi tolta la vita. Caronte le dice che "lassù" perdonano tutto, ma non questo peccato. Justine, allora, non si dà pace, s'arrabbia, si dispera, e propone un patto al traghettatore: la possibilità di godere, per la prima volta e per un breve periodo, l'esperienza del sesso, prima di tornare all'Inferno. Il traghettatore glielo concede.

A questo punto, inizia il percorso di "conoscenza" di Justine, che infatti viene affidata ad un insegnante (Harry Reems, già protagonista di Deep Throat), per sperimentare questa nuova, fondamentale dimensione dell'esistenza. La prima cosa che l'insegnante dice a Justine è che non deve vergognarsi del suo corpo, perché quel corpo, fatto in quel modo, irsuto, ordinario, formoso, è ciò che piace agli uomini (siamo nei rutilanti Seventies, gente!) Il tema della conoscenza e dell'autocoscienza diventa centrale nel film: il sesso è conoscenza, e forse per questo è, ça va sans direpeccato. Di qui, tutta un'evocazione di simboli biblici (Eva, la mela, il serpente), il cui significato viene ovviamente "dirottato" su referenti alternativi, più trasgressivi. 

La mise en scène di Damiano (così come la fotografia) è magistrale, nulla di più diverso dalla volgarità (nell'etimo) del porno odierno, alla faccia di decenni di media pornification; insuperata, sia per capacità tecnica, di composizione del quadro, per l'abilità di trovare ardite soluzioni figurative, sia per la capacità di suscitare quel sexual arousal che, alla fine, è l'unità di misura fondamentale in questo genere di cinema. 

Il paradosso e il dramma, tuttavia, è che miss Jones è morta, è un fantasma, e il suo godimento, in definitiva, impossibile, inappagabile, nonostante la grande varietà delle esperienze provate. La coazione a ripetere è una condanna. E forse la riflessione di Damiano è ancora più alta. Probabilmente, la sua, è proprio una riflessione sulla irrappresentabilità dell'atto e del piacere sessuale, come voleva André Bazin. L'Inferno in cui si ritrova miss Jones, alla fine del film, è sconcertante e terribile; niente fuoco e fiamme, nessun riferimento all'affollato catalogo dell'arte antica e moderna, bensì il vuoto, l'assenza. Pareti bianche (della serie, come ti sfrutto al massimo l'assenza di risorse finanziarie, per fare grande cinema). È la presenza di un uomo e una donna, che non si possono comunicare i corpi. Lui folle, lei condannata a un desiderio inesauribile ed eterno. Che è poi, in ultima analisi, e senza scomodare Lacan, anche l'Inferno della condizione umana. 

Riuscire a realizzare un porno metafisico era impossibile. Damiano c'è riuscito. Post-femminista. (4/5)

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