lunedì 27 ottobre 2014

Seul contre tous (G. Noé, 1998)

Seul contre tous è un lungo monologo interiore, sostenuto dall'uso anaforico d'un sinistro sparo di pistola, scritto e diretto da Gaspar Noé, cui sono occorsi circa cinque anni per finire il film. Tra un capitolo e l'altro, dei minacciosi cartelli in tedesco, che sembrano alludere ai Sezierraum di Mauthausen e Auschwitz, fungono da didascalie. Davvero ansiogeno il penultimo Achtung!

L'uso dell'espressione "monologo interiore" è spesso abusata, ma è qui tremendamente appropriata. Noé non ci risparmia nulla: le eccedenti tortuosità del pensiero, il disordine della sintassi, le dissonanze cognitive, una sincerità criminale, l'indicibile più meschino e (in)umano, l'abisso esistenziale, il lessico dei bisogni primari, la fanghiglia dei pregiudizi, l'indecidibilità dei sentimenti.

La corporeità del macellaio (un immenso Philippe Nahon), di cui in premessa viene proposto una sorta di biopic, è solo un pretesto diegetico, come la pseudomarcetta funebre della colonna sonora. Il film sta tutto in un inconscio lacaniano che prende la forma d'un testo concreto - il monologo del protagonista - e ha l'unico vizio di non essere a tratti plausibile per un ex-macellaio che entra ed esce dal Lumpenproletariat francese. Parte di quell'inconscio, tuttavia, trova il modo di spurgarsi all'esterno. Il più delle volte è uno spurgo fetido e intollerabile. Ma il macellaio è agito da un mondo ch'è mera apparenza e convenzione. Il mondo è un abattoir per tutti. Non solo, egli è anche il significante di millenni di storia dell'umanità tutt'altro che edificanti. Un'umanità che - suggerisce il film - non dovrebbe più essere messa in condizione di generare figli.

Seul contre tous è, a suo modo, un'operetta morale, la cui morale è, in realtà, un'anti-morale: si vedano le sequenze iniziale e finale del film. Tratta di un'umanità degenerata, forse da sempre, con la forza dell'ellissi visiva, e di una fotografia imputridita. Un'umanità e una nazione che sono diventate carne da macello (la cartina geografica della Francia è raffigurata come un lembo di carne). È un film che mette in discussione qualsiasi comodità emotiva, ma sa "regalare" il suo effetto catartico sui generis, dopo la visione. Si scopre, infatti, che lo spettatore è stato sottoposto a una lacerante rieducazione. Ad uno scacco al re finale. E rimane il dubbio terrificante che forse nulla ci è estraneo dell'estraneità troppo umana del protagonista. Non è facile, insomma, terminare la visione, sollevati per il fatto che è solo un film. 

Non ci sono, peraltro, molte spiegazioni. In superficie, si può forse intravedere una posizione di matrice materialista. O degli spunti neodarwiniani. Ma c'è molto, molto di più. C'è una pessimistica ed eterna archeologia delle relazioni umane. Un ontologico, heideggeriano, irredimibile disagio d'esistere.

Cinema all'ennesima potenza. Molto stratificato, e con una polifonia di registri stilistici e narrativi, che cita Godard, Scorsese, e certa filmografia mitteleuropea (Haneke, Seidl, Kargl). Estremo. Doloroso. Subliminale. Noé si reinventa la categoria del "perturbante" (Das Unheimliche) sul grande schermo, andando oltre l'horror. Incetta di premi in vari festival. Ma astenersi romantici. Captif. 4,5/5

mercoledì 8 ottobre 2014

Il grande Gatsby (The Great Gatsby, Baz Luhrmann, 2013)

Il grande Gatsby è un adattamento dell'omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald del 1925. Un adattamento abbastanza (anche se non del tutto, soprattutto nel finale) fedele al romanzo, almeno per quanto riguarda l'intreccio; ma confezionato con la spessa cifra stilistica ed espressiva del regista Baz Luhrmann, già autore dello scintillante Moulin Rouge! (2001).

Uno dei temi del film, forse il principale, è quello della contrapposizione tra vero e falso: dove ciò che è falso sembra vero, e ciò che è vero sembra falso. L'impero e il personaggio di Gatsby sono fittizi. Il rapporto tra Daisy e Tom, il riccone che ha sposato, è finzione. E fasulli sono i titoli che circolano nella Wall Street d'inizio secolo, come l'America scoprirà drammaticamente di lì a poco, nell'ottobre del 1929. Il mondo stesso è una grande rappresentazione, tra retrobottega segreti (siamo negli anni del proibizionismo) e inediti palcoscenici (il cinema sta conoscendo il fenomeno del divismo), come nelle feste effervescenti, alcoliche e barocche, celebrate da Gatsby.


L'idea di una potente illusione schopenhaueriana pare trapelare esplicitamente dall'allestimento di Luhrmann, con l'uso deliberatamente eccessivo della grafica computerizzata e del 3D (finalmente usato con consapevolezza) a sostenerne il gioco. Una certa impressione di posticcio, infatti, permea tutto il film, e il velo di Maya evocato dal filosofo tedesco sembra miracolosamente prendere forma di fronte i nostri occhi. Del resto, il romanzo stesso di Fitzgerald è profondamente schopenhaueriano. E non solo nel richiamo al tema della rappresentazione. Vi ritroviamo anche, fortissimo, il tema della volontà, che ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) ha il compito di squarciare il velo, per riuscire a cogliere la realtà. Quando Gatsby dice di "voler" (e potere) rivivere il passato, in fondo, allude a questo. Tornare indietro vuol dire riattivare possibilità, ridefinire il mondo, sperare in un esito diverso delle nostre decisioni. Non a caso, alla fine, Gatsby rimane l'unico personaggio positivo di questa vicenda. È la sua volontà che lo salva. E, a proposito del caso, a proposito di questi destini appesi a un filo, e di quel raggio verde che lo simboleggia nel film, non possiamo, nel frattempo, non pensare a un piccolo omaggio al grande Eric Rohmer.


Schopenhauer aveva visto nella musica un'espressione particolarmente significativa della "volontà" di vivere. E proprio la musica, nel film, assume un'importanza cruciale, svolge un ruolo demiurgico. Luhrmann miscela con estrema disinvoltura musica jazz e dance contemporanea, sortendo un effetto di straniamento davvero notevole (lo stesso visto nella Maria Antonietta di Sofia Coppola). Probabilmente, ci vuole dire che, in ultima analisi, la società non è cambiata molto rispetto al 1922, anno in cui sono ambientati il romanzo e il film. La musica è sempre quella. E la finzione, l'ipocrisia non ha cessato d'infestare la società.


Il film si avvale, soprattutto nella prima parte, di un vertiginoso montaggio pop, d'una azzeccatissima fotografia elettrica (l'unico modo, forse, per disinnescare in modo convincente il destino d'uno stereotipato e prevedibile black and white), e di una recitazione di grande livello (su tutti, un Di Caprio in gran spolvero; mentre l'ultimo della classe mi è parso il povero Tobey Maguire). Un gran film rock! 4/5

mercoledì 1 ottobre 2014

Blind (E. Vogt, 2014)

Il cinema è, fondamentalmente, esperienza (talora traumatica) della visione. Questo, sin dalle sue origini. Proporre, dunque, una riflessione sulla cecità, sfruttando il linguaggio cinematografico, è un'impresa che può sembrare impossibile, soprattutto perché l'occhio umano, al cinema, è spesso una metafora dell'"occhio" meccanico della macchina da presa (ricordo qui, solo di passaggio, il Woody Allen di Hollywood Ending; ma si potrebbe risalire fino al Kinoglaz di Dziga Vertov, passando per il potentissimo L'occhio che uccide di Michael Powell); negare l'occhio, dunque, comporterebbe negare il cinema. Ci è miracolosamente riuscito, in questo caso, il norvegese Eskil Vogt, con questo splendido Blind (2014). E solo un norvegese, forse, che conosce in modo drammatico il significato dell'opposizione tra buio e luce, tra notte e giorno, poteva concepire un film straordinario come questo.

La vicenda è quella di Ingrid (interpretata dalla bravissima Ellen Dorrit Petersen), una giovane insegnate, diventata cieca a causa d'una fulminante malattia degenerativa agli occhi, la quale trascorre le sue giornate fra le scomodità d'una casa riprogrammata per le sue nuove necessità, la dedizione d'un marito sin troppo paziente, una lenta rieducazione sensoriale, e tanta solitudine (cfr. la Fig. 1). Ingrid è all'inizio d'una crisi depressiva, che prova a raccontare ed esorcizzare scrivendo al computer, preparandosi a "conoscere" il mondo in un modo altro. 


Fig. 1 - Buio in sala

Il regista utilizza essenzialmente due espedienti, per poter entrare nella non-visione di Ingrid, seguirne il nuovo percorso gnoseologico, e sviluppare così il proprio discorso estetico.

Il primo espediente consiste in una riflessione sul "vedere", in quanto diverso dal "guardare". Affacciarsi a una finestra è, ad esempio, vedere senza guardare, senza cioè avvicinarsi al vero. Un tema, ovviamente, hitchcockiano (La finestra sul cortile) (cfr. la Fig. 2). L'aggiornamento sul tema, proposto da Vogt, è affidato alla visione panottica, voyeuristica offerta dallo schermo del computer, dal quale è possibile "vedere" ciò che non è dato vedere nella realtà. Ed ecco, ad esempio, nei primi fotogrammi del film, tutto un proliferare d'(in)guardabile pornografia di genere (letteralmente, nell'etimo, "oscena", cioè fuori dagli ordinari orizzonti della visione, anche dentro la pornografia stessa).


Fig. 2 - Finestre per vedere

Il secondo espediente per poter continuare a vedere, nonostante la cecità, è quello di mostrare, buñuelianamente, ciò che i sogni ci fanno vedere, ciò che paradossalmente "vediamo" quando si chiudono gli occhi o si spegne la luce (In With a Little Help from my Friends, i Beatles cantavano: What do you see when you turn out the light? I can't tell you but I know it's mine). Ed è questo secondo espediente che dà energia a tutto il film, e lo fa entrare in una dimensione non reale, ma allo stesso tempo verosimile. In altre parole, surreale - come i sogni. È per tale ragione che, all'inizio, ci si trova confusi, a disagio, come in una nebbia, senza molti punti di riferimento. Ci si abitua pian piano al nuovo stato di cose. Ma la luce spenta (la morte, in senso figurato) è l'inizio del desiderio e... del cinema. Ce lo ha insegnato Edgar Morin, in Le cinéma ou l'homme imaginaire (1956). Nel momento in cui il cadavere viene seppellito, nasce l'immaginazione, che lo fa sciamanicamente rivivere nei pensieri dei vivi. Nel momento in cui si spengono le luci in sala, inizia la magia, la fascinazione del cinema, che accende il desiderio (e la paura) degli individui. Nel momento, infine, in cui si spegne l'interruttore d'una lampada, si cominciano ad affollare le urgenze più inconfessabili (un passaggio, questo, esplicitamente richiamato nel film, quando una "diversa" Ingrid chiede al marito se ha spento la luce, mentre stanno per fare l'amore). 


Fig. 3 - Ingrid? Davvero questo è ciò che sembra?

Ed ecco che Vogt, con estrema perizia, riesce a farci entrare dalla porta principale, per assistere al sublime spettacolo del desiderio della protagonista; desiderio che si sublima in un surplus simbolico, che poi non è altro che lo stesso film che noi stiamo vedendo (non posso dire altro, per non rovinare la festa a chi vorrà vedere il film). Il tema è, ancora una volta, moriniano, e questa volta chiama in causa il tòpos letterario del doppio e dello specchio (cfr. la Fig. 3). 

Blind si presta anche ad altre letture, alcune delle quali non posso anticipare qui (ma alludo, essenzialmente, al ruolo degli strumenti diagnostici, di imaging, ad esempio, nella medicina moderna, i quali possono addirittura "ipervedere"). Un'altra, fondamentale lettura riguarda l'incontro con l'"altro", quando l'"altro" è - per così dire - diverso (cieco, disturbato, perverso, ecc., non importa). Anche in questo caso, il tema è la dialettica vedere/guardare. Si può essere diversi in vari modi, c'è chi "vede" e magari giudica; ma chi ha il coraggio di "guardare" davvero? E c'è anche il tema perfettamente complementare: in che misura siamo noi stessi dei ciechi, che si muovono a tentoni in un ambiente sconosciuto, e forse ostile? Con chi ci misuriamo davvero, ad esempio, in una seduta di chat su Internet? Chi "vediamo" dall'altra parte? Chi "vedono" realmente gli altri?

La sequenza finale è da antologia del cinema (cfr. la Fig. 4). Direi un piccolo saggio d'epistemologia (da notare, per inciso, la tradizionale, biblica associazione tra episteme e sessualità). Un'immagine quantistica. Quanto di ciò che mostro riesce ad essere "guardato"? Se io non vedo chi mi vede, quell'altro esiste? In che misura posso conoscere la realtà dell'altro, riuscire a "guardarlo"? Sono domande eterne, scomode, profonde, difficili. Vogt, naturalmente, non ha una risposta, neanche provvisoria; ma ha il merito di averle poste, discusse e messe in luce, all'interno d'una cornice molto suggestiva.


Fig. 4 - Una questione epistemologica

Il film è recitato benissimo, fotografato magistralmente, con tenui colori pastello, da Thimios Bakatakis, e diretto con sicura e raffinata delicatezza da Eskil Vogt. Vincitore, tra gli altri, di due prestigiosi e meritati premi al Sundance Film Festival e al Festival del Cinema di Berlino. Visionario. 5/5