sabato 26 dicembre 2015

Il calcio... in rete. La "calciosfera" del campionato italiano di Serie A su Facebook

Il campionato italiano di calcio di Serie A, come non lo avete mai visto. C'è, infatti, un'altra competizione parallela, che si gioca online, nella quale la posta in gioco si chiama autorevolezza in rete.  

Nella Fig. 1, ho ricostruito le relazioni di dipendenza (like) fra le venti squadre del campionato e tutte le pagine Facebook ad esse collegate.

Pur essendo quasi un gioco, il risultato è abbastanza impressionante, ed emergono degli interessanti spunti di riflessione sulla "calciosfera" italiana: ad esempio, la centralità degli sponsor, una certa interdipendenza con il mondo dei media, le relazioni con le banche e la finanza, ma anche i legami forti con la realtà del Terzo Settore e del volontariato (per un approfondimento teorico su tutti questi intrecci, rimando all'articolo di F.M. Lo Verde sulla rivista Problemi dell'Informazione, https://www.rivisteweb.it/doi/10.1445/79612). Fra le curiosità, inoltre, un certo isolamento spaziale della "Galassia Romana" e del "mondo Napoli".



Fig. 1 - La "calciosfera" della Serie A su Facebook (26/12/2015, Alberto Trobia)


Nel grafo, la dimensione dei nodi (pagine Facebook) e delle corrispondenti etichette è direttamente proporzionale al loro livello di authority, cioè di centralità e importanza all'interno della rete analizzata (sulla nozione di authority, cfr. http://www.cs.cornell.edu/home/kleinber/auth.pdf). Ecco, dunque, la classifica del campionato di calcio di serie A, misurata sulla base dell'authority di ciascuna squadra su Facebook:

01. Napoli
02. Fiorentina
03. Roma
04. Milan
05. Inter
06. Juventus
07. Genoa
08. Lazio 
09. Udinese
10. Chievo
11. Sampdoria
12. Torino
13. Verona
14. Bologna
15. Palermo
16. Atalanta
17. Sassuolo
18. Empoli 
19. Carpi
20. Frosinone

Le diverse aree colorate, invece, indicano gruppi di nodi tra loro simili o "vicini" dal punto di vista delle dinamiche relazionali. Esse corrispondono a quelli che, in gergo statistico, vengono chiamati cluster (gruppi). Nella Fig. 1, i cluster più importanti e numerosi sono cerchiati in rosso.

La tecnica utilizzata per la ricostruzione e l'analisi di questo tipo di informazioni è la Social Network Analysis (http://socionet.jimdo.com/). Il lavoro, in particolare, è ispirato al noto articolo di Matteo Pavanati sul complottismo online (http://pvnmtt.it/pages/complottisti.html).

venerdì 4 dicembre 2015

Evento (S. Žižek, 2014)

Un libro-mondo, dove si spazia con disinvoltura (e soprattutto intelligenza!) dal cinema alla psicanalisi, dalla religione alla filosofia, dalla critica letteraria alla sociologia, dalla musica al porno. Ogni tanto scomoda Hegel, e richiede un po' d'attenzione, ma Evento, di Slavoj Žižek, non lascia a bocca asciutta. Anzi, una volta letto, può diventare un fedele e sorprendente compagno d'avventure ermeneutiche nel mondo liquido. Da comprare e leggere, solo se pensate di meritarvelo.

Tra le citazioni preferite: "Innamorarsi non significa sapere di cosa si ha bisogno, o che cosa si vuole, e mettersi perciò in cerca di qualcuno che abbia quel requisito: il "miracolo" dell'amore è che si scopre di che cosa si ha bisogno soltanto quando lo si trova".


sabato 28 novembre 2015

Youth (P. Sorrentino, 2015)

Youth (2015), di Paolo Sorrentino, è un film che si potrebbe studiare per anni. Un capolavoro, anche migliore de La grande bellezza, che - bisogna dirlo - aveva i suoi punti ciechi. Questo, invece, no.

Provo qui a riassumere solo alcune coordinate che possano consentire una prima lettura di questo suo ultimo lavoro, e magari ispirarne altre.

La prima, e più scontata, dimensione di analisi è quella prodotta dalla contrapposizione tra gioventù e vecchiaia. Si tratta del vero e proprio motore diegetico del film, i cui ingranaggi sono costituiti da dialoghi brillanti e profondi, densi e toccanti, ironici o imprevisti. Dialoghi che non sembrano mai fuori posto, anche quando si immaginerebbero tutt'altre parole dette da tutt'altre persone.

Meno evidente, forse, è la seconda dimensione, che invece vede contrapporsi natura e cultura. La natura si esprime nei paesaggi stupendi, fotografati da Luca Bigazzi, e nei corpi delle persone. La cultura, invece, si esprime nella Weltanshauung dei personaggi, nelle loro letture del mondo, nelle loro posture intellettuali, ma anche nella musica in tutte le sue varie forme (primitive, classiche, popolari).

Mentre nel primo confronto, giovinezza vs. vecchiaia, è la prima a vincere; nel confronto fra cultura e natura, è la seconda a prevalere. 

La giovinezza prevale come spirito al di là dei corpi invecchiati. Ad esempio, la giovinezza del sentimento amoroso. Come non ricordare, a tal proposito, quel passaggio di Cent'anni di solitudine, che fa: "Ma quando lei entrava in casa, allegra, indifferente, chiacchierona, lui non doveva fare nessuno sforzo per dissimulare la sua tensione, perché quella donna, la cui risata esplosiva spaventava le colombe, non aveva nulla a che vedere col potere invisibile che gli insegnava a respirare dentro e a controllare i battiti del cuore, e gli aveva permesso di capire perché gli uomini hanno paura della morte". Si badi, tuttavia, che - come detto - è la giovinezza come spirito, e non l'essere anagraficamente giovani, che vince il duello. Sembra delinearsi, in tal senso, una differenza tra "giovinezza" (di spirito) e "gioventù" (anagrafica). Rispetto a questa differenza, i giovani non ne escono benissimo. Esemplare è la figura della piccola prostituta, che fa da specchio deformante di una realtà prefabbricata e ignorante.

La natura, dal canto suo, prevale deterministicamente sulla cultura, anche quando non ne possiede le forme culturalmente più apprezzate (la pelle invecchiata del professor Ballinger, la bruttezza dell'antagonista di Lena Ballinger, l'epa deformata di Maradona, etc.), dimostrando di poter accedere a forme "altre" d'efficacia e d'efficienza. In alcuni casi, con una forza destabilizzante. Un tema rothiano, virato dal bianco e nero al colore. 

Queste due dimensioni di senso, incrociandosi ortogonalmente, sembrano disegnare uno spazio cartesiano, lungo il quale si muove tutto il film, occupando di volta in volta uno dei quattro quadranti: vecchiaia+natura, vecchiaia+cultura, giovinezza+natura, giovinezza+cultura. All'origine degli assi troviamo l'energia che fa muovere tutto dialetticamente, e cioè le emozioni (più volte esplicitamente chiamate in causa nel film). Queste ultime sono spesso accese dal tocco dell'altro/a, il che spiega perché il film si svolga quasi interamente nel perimetro di un centro di benessere e massaggi. La potenza del toccarsi risulta dirompente in vari momenti, e sembra riproporre da una diversa prospettiva la vecchia riflessione di Elias Canetti: "Nulla l'uomo teme di più che essere toccato dall'ignoto. [...] Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. [...] Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come sentiamo noi stessi. D'improvviso, poi, sembra che tutto accada all'interno di un unico corpo" (Massa e Potere, trad. it. Adelphi, Milano, 1981, pp. 17-18).

Lascio al lettore più curioso e diligente il piacere di esplorare tutti questi incroci, provando a farsi strada con la luce emessa delle varie declinazioni dell'emozione: la meraviglia, la malinconia, l'orgasmo, la paura, il desiderio, la gioia. Non ne resterà deluso.

Con la solita maestria tecnica, inaugurata da un'inquadratura in stile Fassbinder a inizio film e culminata nell'evocativo movimento dei lettini alla fine del dialogo tra Fred e Lena Bellinger, una colonna sonora evocativa e ben impaginata, grandissime prove d'attore (su tutti Caine e Fonda), e un altissimo coefficiente di significato su cui poter rimuginare a fine proiezione, Paolo Sorrentino ci regala l'ennesimo gigafilm, senza risparmiarsi una goccia d'intelligenza e d'inventiva. Lui entra ufficialmente nei miei preferiti, mentre il film, consigliato a tutti, è da vedere e rivedere nel tempo. Una "gioventù" che non invecchierà mai. Ricostituente. 5/5... con lode.

lunedì 9 novembre 2015

Snoopy & Friends - Il film dei Peanuts (S. Martino, 2015)

L'attesa (o hype, come dicono gli anglofoni) per Snoopy & Friends - Il film dei Peanuts era grande; almeno per me e per gli affezionati lettori, che da decenni seguono le strisce di Schulz e i cartoni animati trasmessi in TV negli anni Settanta e Ottanta. Un'attesa ripagata? Lo dico senza giri di parole: no.

Certo, il film è curatissimo dal punto di vista tecnico (forse troppo?), e bisogna dire che le texture impiegate per "rivestire" le amatissime noccioline e il cane Snoopy, all'inizio, fanno il loro effetto. Purtroppo, però, qui finiscono i pregi del film.

La prima cosa che si nota subito è la mancanza di passo, di ritmo. La sceneggiatura è molle come un budino, le sequenze s'interrompono bruscamente, i personaggi sembrano mimare se stessi. Probabilmente, nel fare una sorta di "Bignami" dell'universo di Schulz, regista e sceneggiatori si sono persi per strada: troppa roba, e nemmeno originale. Sì, interessante l'idea di un "film nel film", per farci partecipare dell'antropomorfa e obliqua fantasia di Snoopy, che però alla lunga risulta assai prolisso e perfino noioso rispetto all'andamento rapsodico della narrazione centrale.

Ma veniamo alle cose davvero imperdonabili.

La prima riguarda la colonna sonora. Benissimo il recupero dei brani di Vince Guaraldi (tra parentesi, imperdibile la lettura di George Winston, nell'album Linus and Lucy: The Music of Vince Guaraldi), ma perché contaminarla con quella nuova canzonaccia, piena zeppa d'effettacci, tipo autotune e compressione a palla? Immagino che l'orrore si spieghi con il tentativo di assecondare e conquistare i gusti dei nuovi, piccoli spettatori, portati al cinema (digitale) da romantici genitori ultraquarantenni. Ma qui si parla dei Peanuts: sono i piccoli che devono imparare a recuperare ed apprezzare questa preziosa eredità del Novecento, e non viceversa! Coraggiosa e condivisibile la scelta di raccontare un mondo bambino, prima della grande rivoluzione tecnologica che ha portato ai millenials e ai nativi digitali; ma, allora, perché questa estetica ipermoderna (posto che non è neanche postmoderna)? La faccenda, insomma, non quadra. Per quanto riguarda la musica, nello specifico, non si poteva - ad esempio - continuare a pescare, come avvenuto in passato, dalla migliore tradizione del songwriting americano? Ma magari è sparito pure quello... 

Il secondo grande peccato mortale è il finale, che ovviamente non svelo qui, ma che grida ancora vendetta. Non è un caso, a mio avviso, che gli si sia voluto porre in qualche modo rimedio nei titoli di coda; titoli di coda che, peraltro, gli spettatori frettolosi, usa e getta, e un po' incolti saltano a pie' pari, per poter finalmente accendere lo smartphone (se l'hanno spento...) e andare a mangiare la "meritata" pizzetta.

Vi sono poi peccati minori di cui s'accorgeranno gli spettatori più "vintage" (o, mi tocca dire, aged): incongruenze interne, incongruenze esterne, discontinuità stilistiche e di linguaggio (Piperita Patty che dà del cane a Snoopy non si può ascoltare! Snoopy è sempre stato: "Quel bambino strano"...). 

Gli effetti collaterali più gravi di queste crepe estetiche e stilistiche sono, in definiva, la spoliazione della poesia, la solubilità improvvisa d'un mondo abbastanza complesso e problematico, caratterizzato da forti tensioni dialettiche (su tutte, quella tra bambini e adulti), l'ironia al ribasso, la mancanza di sublime, e di quel piacevole e invernale languore, che ha reso Snoopy e i suoi amici delle icone del secolo passato, e richiamato l'attenzione di intellettuali quali Umberto Eco. 

Insomma, ecco a voi i Peanuts, levigati e puliti (che Pigpen mi perdoni!), campionati e anestetizzati, masticati e semplificati, e persino politicamente corretti, per conquistare nuovi piccoli ammiratori (e fette di mercato) nel ginepraio dell'ipermodernità debole. Arriverà Natale, ed io andrò a rispolverare le mie vecchie registrazioni in VHS di The Charlie Brown and Snoopy Show. Sarà l'età, ma a me questo Snoopy & Friends ha deluso assai. Compito insufficiente: tutti rimandati a settembre, tranne i tecnici. E siccome la recensione è finita, non mi permetto d'andare a scomodare il professor Martin Heidegger. 2/5

sabato 11 luglio 2015

A girl walks home alone at night (A.L. Amirpour, 2014)

Amore e morte nella fantomatica e quasi western Bad City, al margine dei pozzi di petrolio, in una Persia che parla americano, o in un'America che parla persiano.

Fotografato da Lyle Vincent, in un bianco e nero da togliere il fiato, A girl walks home alone at night (2014), di Ana Lily Amirpour, è uno stupendo cinepoema ipermoderno. 

Nonostante le immagini siano affilate come rasoi, tutto è confuso a Bad City. Le apparenze ingannano (il messaggio politico è evidente), si esercita la dissimulazione. I ruoli si ribaltano, in un continuo e vertiginoso gioco di specchi. Circola molta droga nella città, e la confusione potrebbe originare da lì. Anzi, la droga e, in definitiva, i soldi sono il vero motore diegetico di tutto il film. Così come l'economia è il motore diegetico della storia. 

Le sostanze psicotrope ammorbano il sangue di vip e outsider del luogo, più di quanto faccia Sheila Vand, l'inquietante vampira (notevolissimo, il ciâdar che si trasfigura in ali da pipistrello!), la quale cammina sola nella notte, e sembra avere una sua legge. Una legge alla quale ha invece rinunciato Arash, che per quasi tutto il film ha la mano destra, quella che simboleggia il giusto (right, in inglese), ingessata. Esattamente da quando ha deciso di spacciare.

Ma Sheila e Arash, cautamente, diffidenti come gatti, s'innamorano, forse loro malgrado, in una notte in cui, per effetto dell'ennesimo gioco di specchi, è lui il vampiro e lei la candida pulzella. L'aporia del loro amore è simboleggiata da un paio d'orecchini rubati, che Arash regala alla bella Sheila, la quale non ha i fori alle orecchie per poterli indossare. Sicché è lui, paradossalmente, a bucare la pelle della vampira, facendola sanguinare.

Tutta da ammirare la sensualità dell'occhio della regista Ana Lily Amirpout, che ci invita icasticamente a vedere cosa può significare la Nahda islamica, e a riconsiderare stereotipi e pregiudizi usurati e deleteri. C'è, poi, un casto abbraccio tra Arash e Sheila, avvolti in un mantello, che vale tutto il film, per quanto è romantico.

Tra Persepolis ed il primo Jonathan Demme, Abel Ferrara e Jim Jarmush, Aki Kaurismäki e Quentin Tarantino, con una spruzzata di John Cassavetes, ma con una determinatissima personalità autoriale, impreziosito da una colonna sonora ricercata e apolide, questo è un film straordinario, che dimostra quanto feconda e al tempo stesso spiazzante possa essere la contaminazione tra generi e culture diversi, e quali vertici estetici e di godimento essa possa raggiungere. Praticamente ogni fotogramma di questo film, a partire dal primo, è un'opera d'arte. Capolavoro per ius sanguinis. 5/5

Il trailer del film (DA NON PERDERE!)

mercoledì 8 luglio 2015

Livide (A. Bustillo e J. Maury, 2011)

Vagamente ispirato a Coppélia, il balletto di Delibes, Nuitter e Saint-Léon, dove è protagonista una bambola meccanica, Livide (2011) di Alexandre Bustillo e Julien Maury è un gran film horror, che spicca nell'affollata galleria della nouvelle vague europea, della quale, peraltro, i due registi sono tra i migliori esponenti (vedasi À l'intérieur). La stessa etichetta di "horror movie" gli sta stretta, in quanto si tratta di un'immersione a corpo intero nel genere fantastico, di cui l'horror è solo una parte, sebbene fondamentale.

Il fantastico è l’irruzione del non-familiare nella realtà quotidiana. È quel genere in cui elementi non familiari (il "perturbante" freudiano) si innestano in un contesto di apparente realtà (Caillois), provocando un senso d'esitazione (Todorov) in chi ne è investito. È anche lo smarrimento dell'abitare. Non è casuale la centralità della casa in molti racconti fantastici, come peraltro in questo. Difatti, un progressivo, traumatico spaesamento è ciò che incombe sulla giovane Lucie (la brava Chloé Coulloud), che, assieme ai sue due avidi ed impazienti amici, dovrà vedersela con una dimora maledetta e i suoi bizzarri e fatali abitanti.

Storia e ambientazione sono un tòpos classico del cinema horror: un gruppo di giovani che s'avventura in una casa stregata. Tuttavia, ciò che rende molto intrigante il film è la sua possibile lettura psicanalitica. Lucie è giovane ed incompleta, ha un'identità bambina, ha due occhi di colore diverso, che denunciano la sua doppiezza e la mancata identificazione con un modello adulto (ostacolata anche dal suicidio della madre). Può darsi che alla fine riesca a portare a compimento questo processo, ma dovrà prima fare i conti col suo inconscio, con la dialettica tra il suo io riflesso ed il corpo-in-frammenti (l'espressione è di Lacan, e mai fu più adeguata, in questo caso...) dell'Es

Le simmetrie biografiche di Lucie e Anna (la delicata Chloé Marcq), inoltre, fanno anche pensare alla tensione strutturale e universale dei rapporti intergenerazionali. C'è sempre qualcosa di rotto (e talora si nasconde anche qualcosa di terribile) nella dialettica tra vecchi e giovani (o bambini). E questo s'intuisce già all'inizio della storia.

Il finale del film, che qui non anticipo, rimanda a quell'altra declinazione del fantastico che sono le storie di fate, al sublime, allo Sturm und Drang iconograficamente richiamato dall'evocazione del celeberrimo quadro di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer).

Annegato in una fotografia cianotica, livida per l'appunto, e in un côté d'ispirazione gotica, il film si ricorda per le numerose scene da antologia. Alcune certamente derivate, come dimostrano i numerosi debiti di riconoscenza nei confronti dei grandi maestri del genere riportati esplicitamente nei titoli di coda: da Sam Raimi a George A. Romero, ma girate con grande maestria. Una delle sequenze più riuscite, a mio avviso, è il primo delitto perpetrato nella casa ad opera delle ballerine velate.

Confesso d'aver sentito qualche brivido sulla schiena, in più d'una occasione. Ed è per me evento rarissimo. Peccato, però, che il film descriva soltanto, e non spieghi (forse, perché non può?). Se, oltre il simbolico (con il suo portato di metonimie e metafore), oltre i sintomi, avesse intrapreso anche la strada dei meccanismi che li generano, sarebbe stato un capolavoro assoluto. Così, invece, continua a girare come un carillon rotto. Senza un finale, perché non c'è un inizio. E tuttavia, questo ha anche un suo intrigante risvolto psicanalitico: non si può guarire dal sintomo, diceva Lacan. L'unica cosa è imparare ad averne consapevolezza... e mantenersi in equilibrio sulle punte. Coreutico. 4/5

lunedì 8 giugno 2015

Stato di minorità (D. Giglioli, 2015)

Una riflessione sulla paralisi del "politico", ma anche sugli inciampi di ciò che nel mondo anglofono e nelle scienze sociali viene definita "agency"; una riflessione che, pur articolata ed esigente, davvero apre molte radure di respiro, di luce, di senso, per leggere la complessa realtà di oggi, dopo la modernità, in modo più consapevole. Non ci sono molte spiegazioni, e mancano del tutto, in modo programmatico, delle soluzioni. Ma un libro utile sui dispositivi e le posture della contemporaneità. Da mettere nei preferiti.

La scheda del libro

domenica 10 maggio 2015

U.N.O. (G. William Lombardo, 2014)

Nenè è solo. È U.N.O. Ed “uno” è il numero più solo che si può comporre, cantava Harry Nilsson in una nota (e stupenda) canzone. Nella stessa canzone, Nilsson scrive però che il «due può essere altrettanto brutto dell’uno», e proprio questa idea sembra far da sfondo al cortometraggio girato da G. William Lombardo, che viene qui recensito.

Un secondo tema del corto sembra essere quello del bisogno: bisogno dell’altro, di libertà ed emancipazione, di senso e di "sensi". Bisogni primari, evocati benissimo dalla fotografia, che proprio su due colori primari, il rosso e il blu, è costruita. La privazione sensoriale di cui è affetto Nenè, che è sordo, e il bisogno vitale di connettersi con la realtà, che ne consegue, viene risolta ora da protesi acustiche, ora da immagini e fantasie, di amici e amiche probabilmente immaginari(e). Ma questi non riescono a sopprimere efficacemente gli "acufeni", le Urla Nelle Orecchie della vita di Nenè, il quale - a un certo punto - dovrà sostenere il proprio inevitabile redde rationem

Montato benissimo, ma recitato meno bene, e con effetti speciali comme ci comme ça, U.N.O. è un corto sicuramente interessante. Anzi, i difetti di fabbrica, quasi gli conferiscono quel côté di genere che l’allineano a molti prodotti di questo tipo. Così come il contributo di certe formule archetipiche dell’horror anni Ottanta. Il finale gödelianamente indecidibile è geniale. Da grande cinema, nel senso reitziano (di “arte del tempo”) e buñueliano (di manifesto epistemologico e tecnico-estetico. Ll'allusione è a Un chien andalou). Ad maiora! 3/5

Il link al corto

lunedì 20 aprile 2015

Nymph()maniac (L. von Trier, 2013)

Sullo schermo nero si scorge una fessura. Una fessura creata da muri che si aprono seguendo il movimento della m.d.p. Il cielo ha “rotto le acque”: piove. E lì, per terra, heideggerianamente “gettata” (Geworfenheit) nel mondo, piena di colpi ed ecchimosi, come un bambino appena partorito, c’è Joe (Charlotte Gainsbourg). È  appena (ri)nata. Inizia il lungo racconto della sua vita. Parlato.

S'apre, dunque, con una (ri)nascita personale Nymphomaniac (2013) di Lars von Trier, che qui viene recensito nella sua versione estesa. Ma è anche qualcosa di più. Il regista danese, infatti, ci propone una vera e propria cosmogonia (dopo l'Apocalisse di Melancholia), la nascita d’un mondo. Si tratta di una "origine del mondo" à la Gustave Courbet. E di una Weltanschauung con la sua lingua, che come nel Codex Seraphinianus risulta dall’originale giustapposizione di forme archetipiche, modelli semplici, segni atavici e misterici. Il tema dell'origine è anche sostenuto dai frequenti riferimenti al frassino, che nella mitologia norrena è Yggdrasill, l'albero del principio, che con le sue radici sostiene il mondo. Nymphomaniac è un’opera mondo, così come l’ha definita Franco Moretti (Opere mondo, Torino, Einaudi, 2003). È come il Faust di Mann, spesso citato nel film, l’Ulisse di Joyce, o Cent’anni di solitudine di Gabo Márquez. Le opere mondo sono: “enciclopediche, polifoniche, aperte, coltissime, stratificate, didascaliche, interminabili”. Tutti aggettivi che descrivono perfettamente il film.

L'esercizio enciclopedico di von Trier ritaglia dalla storia della cultura occidentale una lunga serie di riferimenti, riunendoli in un pantheon personale che va da E.A. Poe a J.S. Bach, da Jimi Hendrix a Charles Darwin, da Fidia alla fisica dei quanti. Il regista disegna il suo mondo con movimenti di macchina che sembrano ispirarsi alla sezione aurea. Organizza il suo discorso in didascalie, formule, capitoli ("Il pescatore perfetto", "Jerôme", "La signora H", "Delirio", "La scuola di organo", "La chiesa d'Oriente e d'Occidente (L'anatra silenziosa)", "Lo specchio", "La pistola"). Tenta di ricostruire una grammatica sociale, con lo stile d’un catalogo di botanica della fine dell’Ottocento. Ma c’è sempre qualcosa che sfugge, che risulta incontrollabile, o è infinitamente grande, incommensurabile come una successione di Fibonacci (in origine, pensata per tener conto della frenetica attività copulatoria dei conigli). Non c’è una logica, dice Joe al vecchio Seligman (il bravissimo Stellan Skarsgård), che l’ha raccolta dalla strada. Sicché lo scarto non è mai colmato, come nel paradosso di Zenone, quello di Achille e della tartaruga, citato (e spiegato) nel film. L’intera cultura dell’Occidente sembra aver trovato dimora, come in un Aleph borgesiano, tra i fotogrammi della pellicola, curati da von Trier in ogni minimo dettaglio. Anche il cinema, ovviamente, vi rientra. Le meta-citazioni sono vaste, da Tarkovskij a Pasolini, fino allo stesso von Trier (ad esempio, la sequenza del bimbo sul balcone). In una brevissima sequenza, il regista ci invita pure a riflettere sulla macchina cinema, sul suo essere specchio, quando, durante il racconto di Joe, da uno specchio, appunto, si riescono ad intravedere attrezzi, strumenti ottici, mani dell’operatore che in quel momento stanno girando il film.

È certamente un film erotico, Nymphomaniac, ed anche pornografico; ma bisogna intendersi sui termini e le loro connotazioni.

L’erotismo di von Trier, intanto, gioca su due sponde fondamentali. La prima fa certamente riferimento alla grande intuizione di Bataille, circa l’intimo nesso fra eros e religiosità (Georges Bataille, L’erotismo, Milano, ES, 1957). La ninfomane Joe viene “salvata” da Seligman, che diventa una sorta di confessore laico, e attraverso il suo racconto discute di peccato, colpa, espiazione. Joe però non cerca la salvezza, cerca un superamento mistico, un oltrepassare. All’inizio del film dice di essere tra coloro che “pretendono di più dal tramonto”. L’incontro con Seligman attiva una dialettica hegeliana di tesi (natura), antitesi (cultura) e sintesi (civilizzazione), che permette a Joe di cambiare prospettiva ogni volta, per produrre nuovo discorso. Il suo mondo viene messo sottosopra dal vecchio confessore, come fece Marx con la dialettica di Hegel, per rivelarsi in altre forme. Si tratta della visualizzazione plastica dell’incessante attività di Es, Io e Super-io nella psiche umana, così come ce l’ha insegnata Sigmund Freud. L’immagine di un frassino diviso e piegato dall’esperienza, nella seconda parte del film, restituisce la sintesi, l’esito di questa attività, che Joe fissa con sublime commozione, in un ritratto che von Trier prende a prestito dall’iconografia romantica.

La seconda direttrice dell’erotismo di von Trier è quella gnoseologica. L’eros è scarto di conoscenza. La ninfa (il primo stadio di sviluppo di un insetto, prima di diventare pupa) è colei che si trova solo al primo stadio di tale conoscenza, e deve fronteggiare prove ed errori talora costosi. Senonché, la ninfa Joe sovverte l’esito NELLA civilizzazione che segue generalmente alla fase sperimentale, riscoprendo invece il “principio del piacere” e facendolo reichianamente o marcusianamente prevalere sul “principio di prestazione” (W. Reich, La funzione dell’orgasmo, Milano, il Saggiatore, 1969; H. Marcuse, Eros e Civiltà, Torino, Einaudi, 1964). Le leggi del desiderio, tuttavia, sono lì a ricordarle che non può esistere appagamento del piacere, e anzi può arrivare la distruzione. Il fatto è che il desiderio non ha a che vedere con la soddisfazione di bisogni primari. Ci vuole altro, ci vogliono radici, riconoscimento, parola (M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Torino, Bollati Boringhieri, 2012). Ed è, infatti, straordinaria la riflessione orwelliana che l’incolta (ma intelligentissima) Joe fa a Seligman sull’importanza delle parole, che non vanno eliminate, proibite; anche quelle con più forte contenuto assiologico, come “negro”.

Quanto al porno, se lo si immagina come rappresentazione immorale, siamo del tutto fuori strada. Semplicemente sbaglia chi qualifica sbrigativamente la pellicola come pornografica (o ci/si sta prendendo in giro, come ha fatto furbamente von Trier, con i gazzettieri pettegoli e incolti). Non lo è affatto. Anzi, è un viaggio nei profondi dilemmi della filosofia morale, da Aristotele a Jonas. E si pone, inevitabilmente, in una dimensione essenzialmente escatologica, laddove vengono esplorate le varie forme del limite degli esseri umani. Nymphomaniac è, semmai, osceno; ma nel senso etimologico del termine, nel senso che porta sulla scena ciò che non dovrebbe starci. Il dialogo sull’aborto, ad esempio, è qualcosa di unico: scioccante e commovente, intelligente e durissimo, stimolante e provocatorio (Ingmar Bergman ascolta da dietro una porta). È un film per adulti, illuminista in senso Kantiano. È porno, perché ritrae organi ed atti sessuali, ma è anti-porno, nel momento in cui inverte la direzione di causa ed effetto: mentre nel porno la trama è un pretesto, qui il pretesto è il sesso. Un sesso ch’è polimorfo, polifonico, molteplice. Una delle visioni più belle che ci regala il film è un’odigitria, che fa da contraltare alla crudeltà dell’iconografia cristiana della croce. Il tentativo è quello di riscattare la dimensione gioiosa della sessualità dalla petit morte, o dallo scandalo del desiderio. Ma l’orgasmo è dolore e piacere, è la Chiesa dell’Est e dell’Ovest, è una somma di voci e di trame, come in una sonata di Bach. Ha degli accessi bizzarri, come quelli che può trovare un’anatra muta e curiosa in cerca di guai (il riferimento è alla forma che assume la mano nelle pratiche di fisting).

Nymphomanic è un’opera aperta, asintotica, e in quanto tale continuerà a dirci cose, a porci delle domande, a suggerirci delle letture. Virtualmente all’infinito. È, al contempo, un manuale, un saggio, un documento, un romanzo dai precisi meccanismi narrativi. La recitazione è ai massimi livelli, e la Gainsbourg semplicemente impossibile (e che emozione rivedere Udo Kier!). È già un classico, perché – come voleva Calvino – non finirà mai di dire ciò che ha da dire. Ed è un immenso capolavoro senza tempo. (Big) bang!

sabato 18 aprile 2015

L'animale morente (The Dying Animal, Philip Roth, 2001)

Stanley Spencer - The artist and his second wife (1937)
L’animale morente è un romanzo di Philip Roth del 2001. È una delle cose più belle che mi sia mai capitato di leggere. Roth si conferma un grande narratore, e al contempo un implacabile ed attento osservatore dei rapporti tra persone. Il romanzo è impregnato di cultura ebraico-newyorkese (come si diceva una volta), nella sua espressione più felice. Solo Woody Allen, forse, è stato capace di avvicinarsi alle stesse alte temperature; e non a caso (anzi, per effetto di numerose coincidenze) mi è spesso tornato in mente, mentre leggevo il libro. Ovviamente, registri e mezzi espressivi sono – ça va sans dire – diversi. Questo è un romanzo sui corpi, quelli biologici delle persone e quello sociale della famiglia. La scelta del seno di Consuela come terreno di sperimentazione del desiderio del professor David Kepesh, il protagonista del romanzo, è emblematica: non si può, infatti, non ammettere la sua ambiguità semantica, per il fatto d'alludere simultaneamente alla sensualità e alla maternità. Il sesso è ovviamente al centro del discordo di Roth, ma non solo nella sua cifra carnale. Il cambio di secolo attorno al quale si svolge la trama, può metaforicamente segnalare una svolta del corpo stesso, della sua lettura, del suo significato, della sua stessa ontologia. C’è anche nostalgia nel ripassare i ricordi dei favolosi Sixties. Le pagine in cui il flusso di coscienza di Kepesh-Roth delinea i rapporti tra maschi e femmine sono probabilmente quanto di più sincero sia mai stato scritto in materia dal lato guidatore. Credo che l’abbandono sia l’unico modo di affrontare la lettura del romanzo, pena una faticosissima, impossibile direi, battaglia contro natura. E, anzi, l’opposizione natura vs. cultura sembrerebbe essere il fondale più vistoso della riflessione di Roth. Laddove la natura non è, almeno esclusivamente, il corpo biologico; bensì la morte (attraverso la malattia) che attende ogni essere umano. L’animale morente è un capolavoro, come il quadro di Stanley Spencer che, a un certo punto del libro, getta luce sulle riflessioni del professor David Kepesh. Un libro indispensabile.

Quarta di copertina (edizione Einaudi)

giovedì 5 marzo 2015

Solo gli amanti sopravvivono (Only Lovers Left Alive, J. Jarmusch, 2013)

Nel 1982, Alain Aspect riesce a trovare una risposta al paradosso di Einstein, Podolski e Rosen in merito al fenomeno della correlazione quantistica, il cosiddetto entanglement quantistico. Egli conferma sperimentalmente che due sistemi fisici (ad esempio, due elettroni), se hanno interagito in passato, continueranno (eternamente?) ad interagire, sebbene spazialmente lontanissimi. Ciò che sembra un paradosso per la fisica classica, è in realtà un fenomeno misurabile. 

È questa l'idea che ispira il film di Jarmusch, presentato a Cannes 2013, Solo gli amanti sopravvivono. Adam (Tom Hiddleston) ed Eve (Tilda Swinton) sono spazialmente separati, uno vive a Detroit l'altra a Tangeri, ma sono sposati da sempre, dalla notte dei tempi (i nomi lo evocano simbolicamente). Sono eterni. Non vivi, non morti. Inattuali. Sono vampiri. Reincarnazioni, insieme ad altri "colleghi", di spiriti elevati che hanno interagito (sono, dunque, entangled!) con scrittori, poeti e musicisti più o meno maledetti (da Marlowe, Shakespeare e Poe, fino a Iggy Pop, passando per Eddie Cochran). 

Proprio la musica, anch'essa inattuale, in questo caso, mi pare essere l'oggetto di valore al centro della riflessione di Jarmusch. Adam, che è un musicista, ne è una sorta di custode, ne conserva oggetti (strumenti e attrezzature) e simboli (opere, spartiti, dischi). Li difende paradossalmente dalla vampirizzazione contemporanea. Significativa, in questo senso, la sequenza in cui si vede una parete della casa di Adam, ricoperta di ritratti che rimandano ad una sorta di Pantheon personale (a me ha ricordato la copertina di Sgt. Pepper's dei Beatles), un peculiare cabinet d'amateur (cfr. la Fig. 1).
  
Fig. 1 - Cabinet d'amateur

I nuovi vampiri, infatti, sono i fan, i vivi che hanno un sangue "inquinato", il mercato. I vampiri reali, invece, sono creature pure, ma annoiate (l'ennui è qui una riuscita metafora dell'amoralità, già sfruttata negli Amleto di Carmelo Bene), esitanti e assediate. Il rovesciamento epistemologico, lo spin quantico, è servito. 

Ma la musica è essenzialmente condivisione, come ha una volta detto efficacemente Ian Anderson (con i suoi Jethro Tull, nel gotha della musica rock). Sicché il solitario Adam soffre l'assenza della dolce Eve, la quale decide di andarlo a trovare col suo nutrimento di testi e pallido corpo. Ma qualcosa comincia a interferire con l'entanglement quantistico, e porterà a nuovi equilibri...

La metafora musicale di Jarmusch, tuttavia, non scompare. Il nuovo equilibrio allude ad una nuova musica, alla scoperta di qualcosa di diverso che potrebbe conquistare il mondo, all'insegna della contaminazione con l'altro; divorando, però, forse, l'esotico. Il nuovo e la contaminazione confliggono con l'eterno presente, che a questo punto può essere garantito solo da un atto violento. È, tuttavia, un atto etico, sostenuto da un nomos sensuale e senza orfani. "Love is all you need", cantavano i Beatles, che appunto sono stati i testimoni più scintillanti di quel nomos nella grande narrazione pop-rock. Rien va plus.

Il film è figurativamente molto bello. Ha un certo côté in stile seventies, che s'accorda benissimo con una colonna sonora vintage; ma non nostalgica, si badi. Ciò significa che in qualche modo il film rimane ancorato all'attualità dell'inattuale. Suggestive le riprese notturne, i bagliori della città, l'archeologia industriale, il modernariato in plastica colorata e bachelite, il sangue che viene consumato sotto forma di ghiacciolo, i quali finiscono con l'innovare le classiche categorie estetiche preromantiche (dopo la lezione cyber e steampunk) (cfr. la Fig. 2). Qui regista e direttore della fotografia (Yorick (sic!) Le Saux) si assicurano il jackpot

Fig. 2 - Neo-preromanticismo

La recitazione della Swinton è rara e perfetta, soprattutto quando deve evocare la natura animalesca della sua condizione di vampiro. Un po' meno efficace Tom Hiddleston, talora fuori sincrono. Peccato invece per i dialoghi, spesso banali, che in qualche occasione scadono addirittura nel comico (m'è venuta in mente la Famiglia Addams!) Non escludo, tuttavia, che, nel caso della versione italiana, abbia avuto una qualche colpa il doppiaggio. In mancanza di testi stimolanti, le due ore di proiezione aggiungono zavorra. 

Un'occasione, in parte, mancata; ma grande cinema. Progressive. 3,5/5

venerdì 16 gennaio 2015

THE HOBBIT RESEARCH PROJECT

Stiamo realizzando una ricerca accademica, a livello internazionale (sono coinvolte decine di nazioni), sulla ricezione del terzo film della trilogia de "Lo Hobbit". Se avete un po' di tempo, e naturalmente anche la voglia, ci potreste dare una grande mano rispondendo ad alcune domande sul film.

La ricerca potrebbe essere la più grande mai realizzata sull'audience di un film! Potete vedere quante persone hanno già compilato il questionario qui:
http://www.worldhobbitproject.org/db_dump_count.php

Trovate il sito della ricerca, per compilare il questionario e avere tutte le informazioni su di noi, al seguente link:
http://www.worldhobbitproject.org/it/home/

Grazie a tutti per la collaborazione, e - se potete - diffondete il link a quante più persone vi è possibile!