lunedì 20 aprile 2015

Nymph()maniac (L. von Trier, 2013)

Sullo schermo nero si scorge una fessura. Una fessura creata da muri che si aprono seguendo il movimento della m.d.p. Il cielo ha “rotto le acque”: piove. E lì, per terra, heideggerianamente “gettata” (Geworfenheit) nel mondo, piena di colpi ed ecchimosi, come un bambino appena partorito, c’è Joe (Charlotte Gainsbourg). È  appena (ri)nata. Inizia il lungo racconto della sua vita. Parlato.

S'apre, dunque, con una (ri)nascita personale Nymphomaniac (2013) di Lars von Trier, che qui viene recensito nella sua versione estesa. Ma è anche qualcosa di più. Il regista danese, infatti, ci propone una vera e propria cosmogonia (dopo l'Apocalisse di Melancholia), la nascita d’un mondo. Si tratta di una "origine del mondo" à la Gustave Courbet. E di una Weltanschauung con la sua lingua, che come nel Codex Seraphinianus risulta dall’originale giustapposizione di forme archetipiche, modelli semplici, segni atavici e misterici. Il tema dell'origine è anche sostenuto dai frequenti riferimenti al frassino, che nella mitologia norrena è Yggdrasill, l'albero del principio, che con le sue radici sostiene il mondo. Nymphomaniac è un’opera mondo, così come l’ha definita Franco Moretti (Opere mondo, Torino, Einaudi, 2003). È come il Faust di Mann, spesso citato nel film, l’Ulisse di Joyce, o Cent’anni di solitudine di Gabo Márquez. Le opere mondo sono: “enciclopediche, polifoniche, aperte, coltissime, stratificate, didascaliche, interminabili”. Tutti aggettivi che descrivono perfettamente il film.

L'esercizio enciclopedico di von Trier ritaglia dalla storia della cultura occidentale una lunga serie di riferimenti, riunendoli in un pantheon personale che va da E.A. Poe a J.S. Bach, da Jimi Hendrix a Charles Darwin, da Fidia alla fisica dei quanti. Il regista disegna il suo mondo con movimenti di macchina che sembrano ispirarsi alla sezione aurea. Organizza il suo discorso in didascalie, formule, capitoli ("Il pescatore perfetto", "Jerôme", "La signora H", "Delirio", "La scuola di organo", "La chiesa d'Oriente e d'Occidente (L'anatra silenziosa)", "Lo specchio", "La pistola"). Tenta di ricostruire una grammatica sociale, con lo stile d’un catalogo di botanica della fine dell’Ottocento. Ma c’è sempre qualcosa che sfugge, che risulta incontrollabile, o è infinitamente grande, incommensurabile come una successione di Fibonacci (in origine, pensata per tener conto della frenetica attività copulatoria dei conigli). Non c’è una logica, dice Joe al vecchio Seligman (il bravissimo Stellan Skarsgård), che l’ha raccolta dalla strada. Sicché lo scarto non è mai colmato, come nel paradosso di Zenone, quello di Achille e della tartaruga, citato (e spiegato) nel film. L’intera cultura dell’Occidente sembra aver trovato dimora, come in un Aleph borgesiano, tra i fotogrammi della pellicola, curati da von Trier in ogni minimo dettaglio. Anche il cinema, ovviamente, vi rientra. Le meta-citazioni sono vaste, da Tarkovskij a Pasolini, fino allo stesso von Trier (ad esempio, la sequenza del bimbo sul balcone). In una brevissima sequenza, il regista ci invita pure a riflettere sulla macchina cinema, sul suo essere specchio, quando, durante il racconto di Joe, da uno specchio, appunto, si riescono ad intravedere attrezzi, strumenti ottici, mani dell’operatore che in quel momento stanno girando il film.

È certamente un film erotico, Nymphomaniac, ed anche pornografico; ma bisogna intendersi sui termini e le loro connotazioni.

L’erotismo di von Trier, intanto, gioca su due sponde fondamentali. La prima fa certamente riferimento alla grande intuizione di Bataille, circa l’intimo nesso fra eros e religiosità (Georges Bataille, L’erotismo, Milano, ES, 1957). La ninfomane Joe viene “salvata” da Seligman, che diventa una sorta di confessore laico, e attraverso il suo racconto discute di peccato, colpa, espiazione. Joe però non cerca la salvezza, cerca un superamento mistico, un oltrepassare. All’inizio del film dice di essere tra coloro che “pretendono di più dal tramonto”. L’incontro con Seligman attiva una dialettica hegeliana di tesi (natura), antitesi (cultura) e sintesi (civilizzazione), che permette a Joe di cambiare prospettiva ogni volta, per produrre nuovo discorso. Il suo mondo viene messo sottosopra dal vecchio confessore, come fece Marx con la dialettica di Hegel, per rivelarsi in altre forme. Si tratta della visualizzazione plastica dell’incessante attività di Es, Io e Super-io nella psiche umana, così come ce l’ha insegnata Sigmund Freud. L’immagine di un frassino diviso e piegato dall’esperienza, nella seconda parte del film, restituisce la sintesi, l’esito di questa attività, che Joe fissa con sublime commozione, in un ritratto che von Trier prende a prestito dall’iconografia romantica.

La seconda direttrice dell’erotismo di von Trier è quella gnoseologica. L’eros è scarto di conoscenza. La ninfa (il primo stadio di sviluppo di un insetto, prima di diventare pupa) è colei che si trova solo al primo stadio di tale conoscenza, e deve fronteggiare prove ed errori talora costosi. Senonché, la ninfa Joe sovverte l’esito NELLA civilizzazione che segue generalmente alla fase sperimentale, riscoprendo invece il “principio del piacere” e facendolo reichianamente o marcusianamente prevalere sul “principio di prestazione” (W. Reich, La funzione dell’orgasmo, Milano, il Saggiatore, 1969; H. Marcuse, Eros e Civiltà, Torino, Einaudi, 1964). Le leggi del desiderio, tuttavia, sono lì a ricordarle che non può esistere appagamento del piacere, e anzi può arrivare la distruzione. Il fatto è che il desiderio non ha a che vedere con la soddisfazione di bisogni primari. Ci vuole altro, ci vogliono radici, riconoscimento, parola (M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Torino, Bollati Boringhieri, 2012). Ed è, infatti, straordinaria la riflessione orwelliana che l’incolta (ma intelligentissima) Joe fa a Seligman sull’importanza delle parole, che non vanno eliminate, proibite; anche quelle con più forte contenuto assiologico, come “negro”.

Quanto al porno, se lo si immagina come rappresentazione immorale, siamo del tutto fuori strada. Semplicemente sbaglia chi qualifica sbrigativamente la pellicola come pornografica (o ci/si sta prendendo in giro, come ha fatto furbamente von Trier, con i gazzettieri pettegoli e incolti). Non lo è affatto. Anzi, è un viaggio nei profondi dilemmi della filosofia morale, da Aristotele a Jonas. E si pone, inevitabilmente, in una dimensione essenzialmente escatologica, laddove vengono esplorate le varie forme del limite degli esseri umani. Nymphomaniac è, semmai, osceno; ma nel senso etimologico del termine, nel senso che porta sulla scena ciò che non dovrebbe starci. Il dialogo sull’aborto, ad esempio, è qualcosa di unico: scioccante e commovente, intelligente e durissimo, stimolante e provocatorio (Ingmar Bergman ascolta da dietro una porta). È un film per adulti, illuminista in senso Kantiano. È porno, perché ritrae organi ed atti sessuali, ma è anti-porno, nel momento in cui inverte la direzione di causa ed effetto: mentre nel porno la trama è un pretesto, qui il pretesto è il sesso. Un sesso ch’è polimorfo, polifonico, molteplice. Una delle visioni più belle che ci regala il film è un’odigitria, che fa da contraltare alla crudeltà dell’iconografia cristiana della croce. Il tentativo è quello di riscattare la dimensione gioiosa della sessualità dalla petit morte, o dallo scandalo del desiderio. Ma l’orgasmo è dolore e piacere, è la Chiesa dell’Est e dell’Ovest, è una somma di voci e di trame, come in una sonata di Bach. Ha degli accessi bizzarri, come quelli che può trovare un’anatra muta e curiosa in cerca di guai (il riferimento è alla forma che assume la mano nelle pratiche di fisting).

Nymphomanic è un’opera aperta, asintotica, e in quanto tale continuerà a dirci cose, a porci delle domande, a suggerirci delle letture. Virtualmente all’infinito. È, al contempo, un manuale, un saggio, un documento, un romanzo dai precisi meccanismi narrativi. La recitazione è ai massimi livelli, e la Gainsbourg semplicemente impossibile (e che emozione rivedere Udo Kier!). È già un classico, perché – come voleva Calvino – non finirà mai di dire ciò che ha da dire. Ed è un immenso capolavoro senza tempo. (Big) bang!

sabato 18 aprile 2015

L'animale morente (The Dying Animal, Philip Roth, 2001)

Stanley Spencer - The artist and his second wife (1937)
L’animale morente è un romanzo di Philip Roth del 2001. È una delle cose più belle che mi sia mai capitato di leggere. Roth si conferma un grande narratore, e al contempo un implacabile ed attento osservatore dei rapporti tra persone. Il romanzo è impregnato di cultura ebraico-newyorkese (come si diceva una volta), nella sua espressione più felice. Solo Woody Allen, forse, è stato capace di avvicinarsi alle stesse alte temperature; e non a caso (anzi, per effetto di numerose coincidenze) mi è spesso tornato in mente, mentre leggevo il libro. Ovviamente, registri e mezzi espressivi sono – ça va sans dire – diversi. Questo è un romanzo sui corpi, quelli biologici delle persone e quello sociale della famiglia. La scelta del seno di Consuela come terreno di sperimentazione del desiderio del professor David Kepesh, il protagonista del romanzo, è emblematica: non si può, infatti, non ammettere la sua ambiguità semantica, per il fatto d'alludere simultaneamente alla sensualità e alla maternità. Il sesso è ovviamente al centro del discordo di Roth, ma non solo nella sua cifra carnale. Il cambio di secolo attorno al quale si svolge la trama, può metaforicamente segnalare una svolta del corpo stesso, della sua lettura, del suo significato, della sua stessa ontologia. C’è anche nostalgia nel ripassare i ricordi dei favolosi Sixties. Le pagine in cui il flusso di coscienza di Kepesh-Roth delinea i rapporti tra maschi e femmine sono probabilmente quanto di più sincero sia mai stato scritto in materia dal lato guidatore. Credo che l’abbandono sia l’unico modo di affrontare la lettura del romanzo, pena una faticosissima, impossibile direi, battaglia contro natura. E, anzi, l’opposizione natura vs. cultura sembrerebbe essere il fondale più vistoso della riflessione di Roth. Laddove la natura non è, almeno esclusivamente, il corpo biologico; bensì la morte (attraverso la malattia) che attende ogni essere umano. L’animale morente è un capolavoro, come il quadro di Stanley Spencer che, a un certo punto del libro, getta luce sulle riflessioni del professor David Kepesh. Un libro indispensabile.

Quarta di copertina (edizione Einaudi)