sabato 11 luglio 2015

A girl walks home alone at night (A.L. Amirpour, 2014)

Amore e morte nella fantomatica e quasi western Bad City, al margine dei pozzi di petrolio, in una Persia che parla americano, o in un'America che parla persiano.

Fotografato da Lyle Vincent, in un bianco e nero da togliere il fiato, A girl walks home alone at night (2014), di Ana Lily Amirpour, è uno stupendo cinepoema ipermoderno. 

Nonostante le immagini siano affilate come rasoi, tutto è confuso a Bad City. Le apparenze ingannano (il messaggio politico è evidente), si esercita la dissimulazione. I ruoli si ribaltano, in un continuo e vertiginoso gioco di specchi. Circola molta droga nella città, e la confusione potrebbe originare da lì. Anzi, la droga e, in definitiva, i soldi sono il vero motore diegetico di tutto il film. Così come l'economia è il motore diegetico della storia. 

Le sostanze psicotrope ammorbano il sangue di vip e outsider del luogo, più di quanto faccia Sheila Vand, l'inquietante vampira (notevolissimo, il ciâdar che si trasfigura in ali da pipistrello!), la quale cammina sola nella notte, e sembra avere una sua legge. Una legge alla quale ha invece rinunciato Arash, che per quasi tutto il film ha la mano destra, quella che simboleggia il giusto (right, in inglese), ingessata. Esattamente da quando ha deciso di spacciare.

Ma Sheila e Arash, cautamente, diffidenti come gatti, s'innamorano, forse loro malgrado, in una notte in cui, per effetto dell'ennesimo gioco di specchi, è lui il vampiro e lei la candida pulzella. L'aporia del loro amore è simboleggiata da un paio d'orecchini rubati, che Arash regala alla bella Sheila, la quale non ha i fori alle orecchie per poterli indossare. Sicché è lui, paradossalmente, a bucare la pelle della vampira, facendola sanguinare.

Tutta da ammirare la sensualità dell'occhio della regista Ana Lily Amirpout, che ci invita icasticamente a vedere cosa può significare la Nahda islamica, e a riconsiderare stereotipi e pregiudizi usurati e deleteri. C'è, poi, un casto abbraccio tra Arash e Sheila, avvolti in un mantello, che vale tutto il film, per quanto è romantico.

Tra Persepolis ed il primo Jonathan Demme, Abel Ferrara e Jim Jarmush, Aki Kaurismäki e Quentin Tarantino, con una spruzzata di John Cassavetes, ma con una determinatissima personalità autoriale, impreziosito da una colonna sonora ricercata e apolide, questo è un film straordinario, che dimostra quanto feconda e al tempo stesso spiazzante possa essere la contaminazione tra generi e culture diversi, e quali vertici estetici e di godimento essa possa raggiungere. Praticamente ogni fotogramma di questo film, a partire dal primo, è un'opera d'arte. Capolavoro per ius sanguinis. 5/5

Il trailer del film (DA NON PERDERE!)

mercoledì 8 luglio 2015

Livide (A. Bustillo e J. Maury, 2011)

Vagamente ispirato a Coppélia, il balletto di Delibes, Nuitter e Saint-Léon, dove è protagonista una bambola meccanica, Livide (2011) di Alexandre Bustillo e Julien Maury è un gran film horror, che spicca nell'affollata galleria della nouvelle vague europea, della quale, peraltro, i due registi sono tra i migliori esponenti (vedasi À l'intérieur). La stessa etichetta di "horror movie" gli sta stretta, in quanto si tratta di un'immersione a corpo intero nel genere fantastico, di cui l'horror è solo una parte, sebbene fondamentale.

Il fantastico è l’irruzione del non-familiare nella realtà quotidiana. È quel genere in cui elementi non familiari (il "perturbante" freudiano) si innestano in un contesto di apparente realtà (Caillois), provocando un senso d'esitazione (Todorov) in chi ne è investito. È anche lo smarrimento dell'abitare. Non è casuale la centralità della casa in molti racconti fantastici, come peraltro in questo. Difatti, un progressivo, traumatico spaesamento è ciò che incombe sulla giovane Lucie (la brava Chloé Coulloud), che, assieme ai sue due avidi ed impazienti amici, dovrà vedersela con una dimora maledetta e i suoi bizzarri e fatali abitanti.

Storia e ambientazione sono un tòpos classico del cinema horror: un gruppo di giovani che s'avventura in una casa stregata. Tuttavia, ciò che rende molto intrigante il film è la sua possibile lettura psicanalitica. Lucie è giovane ed incompleta, ha un'identità bambina, ha due occhi di colore diverso, che denunciano la sua doppiezza e la mancata identificazione con un modello adulto (ostacolata anche dal suicidio della madre). Può darsi che alla fine riesca a portare a compimento questo processo, ma dovrà prima fare i conti col suo inconscio, con la dialettica tra il suo io riflesso ed il corpo-in-frammenti (l'espressione è di Lacan, e mai fu più adeguata, in questo caso...) dell'Es

Le simmetrie biografiche di Lucie e Anna (la delicata Chloé Marcq), inoltre, fanno anche pensare alla tensione strutturale e universale dei rapporti intergenerazionali. C'è sempre qualcosa di rotto (e talora si nasconde anche qualcosa di terribile) nella dialettica tra vecchi e giovani (o bambini). E questo s'intuisce già all'inizio della storia.

Il finale del film, che qui non anticipo, rimanda a quell'altra declinazione del fantastico che sono le storie di fate, al sublime, allo Sturm und Drang iconograficamente richiamato dall'evocazione del celeberrimo quadro di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer).

Annegato in una fotografia cianotica, livida per l'appunto, e in un côté d'ispirazione gotica, il film si ricorda per le numerose scene da antologia. Alcune certamente derivate, come dimostrano i numerosi debiti di riconoscenza nei confronti dei grandi maestri del genere riportati esplicitamente nei titoli di coda: da Sam Raimi a George A. Romero, ma girate con grande maestria. Una delle sequenze più riuscite, a mio avviso, è il primo delitto perpetrato nella casa ad opera delle ballerine velate.

Confesso d'aver sentito qualche brivido sulla schiena, in più d'una occasione. Ed è per me evento rarissimo. Peccato, però, che il film descriva soltanto, e non spieghi (forse, perché non può?). Se, oltre il simbolico (con il suo portato di metonimie e metafore), oltre i sintomi, avesse intrapreso anche la strada dei meccanismi che li generano, sarebbe stato un capolavoro assoluto. Così, invece, continua a girare come un carillon rotto. Senza un finale, perché non c'è un inizio. E tuttavia, questo ha anche un suo intrigante risvolto psicanalitico: non si può guarire dal sintomo, diceva Lacan. L'unica cosa è imparare ad averne consapevolezza... e mantenersi in equilibrio sulle punte. Coreutico. 4/5