lunedì 26 dicembre 2016

Irrational Man (W. Allen, 2015)

Nel 2002, lo psicologo Daniel Kahneman vinceva il premio Nobel per l'economia, come riconoscimento per i suoi studi sulle decisioni in condizioni d'incertezza, uno dei grandi temi di riflessione delle scienze economiche contemporanee, e non solo. Molte sue conclusioni sono riassunte in un libro del 2011, intitolato Pensieri lenti e veloci, edito in Italia da Mondadori. In questo libro, Kahneman, tra le altre cose, mette in discussione l'idea secondo la quale la razionalità prevalga nelle decisioni umane. In realtà, egli sostiene, gli individui sono sempre esposti a varie forme di condizionamento, che spesso incidono sulla capacità di giudicare e agire lucidamente. Come corollario di questa tesi, egli afferma che persino le decisioni prese "al volo" possono risultare più efficienti di quelle effettuate dopo lunghi e complicati ragionamenti, necessari a valutare i costi e i benefici dell'azione.

Irrational man, di Woody Allen, sembra aver preso spunto proprio dalle ricerche di Kahneman. Il film racconta la storia di un docente di filosofia, Abe Lucas (interpretato da Joaquin Phoenix), etilista e seduttore, che, trasferitosi in una nuova sede universitaria, si trova a fare i conti con gli esiti imprevisti ("perversi", come dicono i sociologi) delle azioni individuali, verificando l'inadeguatezza, nella prassi, di molte riflessioni teoriche esposte nei manuali di storia della filosofia. 

È lo stesso professor Lucas, alle cui lezioni assistono in parte anche gli spettatori, a spiegare ai suoi studenti la distanza spesso incolmabile tra l'enunciazione di un principio morale e la sua concreta applicazione. Ad esempio, bisogna sempre dire la verità? E se tale verità comportasse il sacrificio di una persona? E la legge va sempre obbedita? E non obbedivano alla legge, forse, i criminali nazisti? (La Hannah Arendt della Banalità del male è citata esplicitamente nel film).  

Ciò che impedisce alla razionalità di produrre gli esiti previsti è anche la contingenza delle azioni degli altri. Intuizione, questa, di un altro premio Nobel per l'economia: Herbert A. Simon, che ha coniato per questo il concetto di "razionalità limitata" (bounded rationality). La somma di una moltitudine di cause può produrre il caos. O, almeno, ciò che viene percepito come caos (o destino) (Eric Rohmer, nel cinema contemporaneo, è stato un grande narratore di storie di questo genere). E poi c'è il sentimento, da sempre proposto come il contraltare della ragione. E c'è il desiderio, qui incarnato dalla brillante studentessa Jill Pollard (una Emma Stone davvero molto espressiva), con la quale Lucas finisce per avere una relazione. 

Poste queste premesse, qualsiasi scelta diventa un'opzione tutta a carico del soggetto, a cui mancano efficaci strumenti di orientamento. Egli diventa l'ingranaggio d'un meccanismo troppo complesso per essere compreso, e il cui libero arbitrio può avere un prezzo incalcolabile da restituire.

È soprattutto il senso, a questo punto, che viene a mancare; un senso univoco. Ciò che la filosofia continentale ha cercato per secoli, per poi arrendersi ad uno sforzo impossibile, e che invece la filosofia analitica ha finito semplicemente per descrivere, interessandosi delle sue strutture e dei suoi meccanismi. Anche a questo si accenna brevemente nelle lezioni del professor Lucas, la cui posizione sembra ricalcare quella di Stephen Stich (La frammentazione della ragione, trad. it. il Mulino, Bologna, 1996), il quale respinge l'equazione razionalità=verità, giungendo ad un pragmatismo epistemologico radicale, in cui il ragionamento non serve a comprendere la verità, ma è un mero strumento da usare. Di qui, un relativismo estremo che in questa sede assume, tuttavia, una connotazione del tutto positiva. 

D'un tratto, dunque, il riscatto. Lucas, per effetto del caso, e d'un forte slancio emotivo seguito all'evento, scende a patti con la prassi. Rovescia il postulato kahnemaniano, secondo cui la paura di perdere è più forte del piacere di vincere. Comprende finalmente cosa vuol dire l'adattamento del significato al suo contesto. S'illude d'aver risolto il rompicapo, e anche la sua sintomatica impotenza sessuale. Costruisce un'impalcatura (perfetta, come il delitto?) di senso, ma... cade. Sì, perché è Abel(e). Egli, in fondo, è la vittima del racconto, a differenza di ciò che potrebbe apparire in un primo momento. Ed è questa l'ultima lezione del professore: la questione morale, purtroppo, è tutt'altro che decidibile, come un teorema di Gödel. Vince il legame sostenuto dal consenso della comunità, la procedura, la rinuncia al libero arbitrio, che viene devitalizzato per essere consegnato ai macchinari del Leviatano hobbesiano.

Irrational man è qualcosa che si avvicina a un capolavoro, se non fosse per alcune prove d'attore che non mi hanno convinto (Joaquin Phoenix, su tutte). L'ombra di Ingmar Bergman sembra oramai coincidere perfettamente con quella di Woody Allen, che ritorna su temi a lui cari (Crimini e misfatti, Match point ecc.). Poggiando su una messa in scena asciutta ed essenziale, il regista americano ci propone, al contempo, un'epistemologia ed un'escatologia, sviluppando una copia in negativo, a specchio, di Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij; una copia in negativo, dove la colpa s'inverte provvisoriamente in etica. L'epistemologia è quella costruttivista d'un mondo fatto di apparenze e auto-inganni, in cui è difficile distinguere il vero dal falso (significative le inquadrature "sporcate" continuamente da alberi e frasche, cioè dalla natura); un mondo incorniciato in un perenne, schopenaueriano verosimile (intrigante, in questo senso, le allusioni al processo, luogo per eccellenza del trionfo del verosimile). L'escatologia, invece, è quella nichilista, d'un mondo che non conosce alcuna razionalità o giustizia giusta, heideggerianamente in balia del caos determinato dall'intreccio delle azioni umane. Non ci sono premi per le azioni morali, ammesso che queste siano effettivamente catalogabili. E non c'è speranza. Solo auto-inganni, per decidere di avvicinarsi piano piano all'abisso, come ha cinicamente ribadito lo stesso Allen in un'intervista di qualche anno fa. 

Nera magnificenza esistenzialista. 5/5

lunedì 21 novembre 2016

Love (G. Noé, 2015)

La sequenza iniziale di Love (Gaspar Noé, 2015) è l'origine di tutto: è l'incipit del racconto, un peccato "originale", l'"origine" della vita e del mondo forse. Un prologo che non si dimentica facilmente, e fa presagire un certo genere di film, anche se neanche un porno ha mai osato cominciare in modo così esplicito e brutale (e, allo stesso tempo, sublime). Ma c'è qualcosa che già ci interroga: quello mostrato sullo schermo non è un rapporto completo, e i due amanti sembrano, in qualche modo, divisi, separati.

Imprigionato tra due sequenze di vita familiare, e narrato con un tempo caotico e spezzato, il film tratta della passione nata, vissuta e poi finita tra Murphy (Karl Glusman), regista in erba, e l'inquieta Electra (Aomi Muyock), un'artista fuori sede, a Parigi. L'idea d'incastrare il cuore pulsante della vicenda tra due parentesi di scialba vita familiare riesce a rendere bene il senso di claustrofobia e di desolazione che contrassegna la vita attuale di Murphy. E, difatti, la voce narrante del protagonista ci introduce immediatamente in un'atmosfera da incubo. È il metaforico primo gennaio di una transizione verso l'età adulta. Murphy si sente in gabbia, è ferito dalla telefonata che ha appena ricevuto, e prova a fuggire verso l'unica cosa che gli è rimasta libera, dopo l'invasione del suo privato; un privato che è ridotto a un paio di mensole con delle videocassette e i dvd preferiti. È rimasto il pensiero, i ricordi, i suoi segreti; segreti che fortificano nella coppia, ma incupiscono nella solitudine. Il film non è altro che il resoconto di questa fuga concitata e impossibile, ma allo stesso tempo necessaria, in una memoria a geometrie variabili.

Il finale è tremendo e angosciante. La scena della moglie che apre la porta del bagno, in cui Murphy sta facendo la doccia, è peggio dell'accetta di Jack Torrance che cerca Wendy, in Shining di Stanley Kubrick. Una sorta di copia in negativo di quella folle sequenza. L'atmosfera complessiva mi ha anche ricordato il finale desolato di The Devil in Miss Jones, di Gerard Damiano, che non credo sia estraneo alla bibliografia della pellicola (vedi le figure sotto). Con quest'ultimo film Love ha in comune il tema del desiderio e del suo impossibile compimento, la cui natura ambivalente mi pare sia al centro del discorso di Noé.



Tale discorso, tuttavia, è a volte troppo esplicito, letterario, e finisce con l'appesantire la visione. Si può dire che, se il tema qui è il desiderio, dall'altro lato quest'ultimo è concretamente obliquo rispetto alla messa in scena. Riuscita, d'altra parte, è invece la vertiginosa duplicazione dei piani, dei livelli del discorso, la ricercata simmetria frattale (cfr. la Fig. 1). Una ramificata mitosi cellulare che s'incista nella difficile rappresentazione delle relazioni tra i protagonisti, sostenuta da un affaticante montaggio alternato, che allude a numerosi dilemmi. 


Fig. 1 - Simmetrie

Una prima opposizione è quella tra io e me sociale, subito istituita nelle prime battute del film, facendo da sfondo a tutto il resto. Una seconda opposizione è quella, probabilmente intrinseca in ogni relazione amorosa, già messa in evidenza nel classico Odi et amo del Liber catulliano. Poi, ancora, vi è la dialettica del desiderio, che è sempre innescata da una mancanza, da un'assenza, come vuole la sua complessa algebra polinomiale. Non a caso, in un passaggio del film, il desiderio riaffiora, quando i due protagonisti cominciano a fare la lista delle cose che mancano. Altra opposizione, che fa da corollario alla precedente, è quella tra eros ed intimità (cfr. Esther Perel, L'intelligenza erotica, Milano, 2007), dalla quale deriva la controversa proliferazione di svariate rappresentazioni del sesso, che alcuni hanno bollato come pornografiche. Quando il sesso viene rappresentato al cinema, la grande discriminante tra eros e pornografia - a mio parere - è questa: tale rappresentazione è al servizio del racconto, di un'idea? Ecco, in questo lavoro di Noé le due cose non sono sempre ben collegate, e quindi il porno sembra voler occupare alcuni vuoti. Tuttavia, non parlerei di porno tout court, e paradossalmente manca "qualcosa di più spinto" per poter parlare d'erotismo. Infine, potremmo ancora individuare un'opposizione tutta interna al personaggio di Elettra, che sembra possedere sia i caratteri della variante di Sofocle sia quelli Euripidei (cfr. la Fig. 2).

Fig. 2 - Quante Electra?

Tutte le opposizioni prese in esame, o comunque evocate dal film, sembrano insanabili. E infatti lo sono ontologicamente, direi. La più grande di tutte è quella tra amore e morte. Da una parte l'amore è il senso della vita (lo afferma Murphy un paio di volte), la cui rabbiosa ricerca è costante nel film come nella vita ("Is there anybody out there?", suonano i Pink Floyd nella colonna sonora); ma esso è provvisorio - questa la tesi di Noé ("Per sempre è troppo tempo", dice Electra a Murphy). Quanto alla morte, che aleggia, ma non è mai esplicitata, il problema è cosa vi sia dopo. La risposta che si danno i protagonisti è, in ultima analisi, la nascita di un figlio (ecco il legame forte col sesso, con la fecondità. "Lacrime, sperma e sangue sono gli elementi fondamentali" di ogni storia, dice Murphy, in un passaggio cruciale del film). Ma, per uno scherzo del destino, Murphy ha un figlio (il piccolo Gaspar - stesso nome del regista) dalla persona "sbagliata". Electra, invece, sembra essere sterile. Per inciso, il citato scherzo del destino, cioè la rottura del preservativo mentre il protagonista ha un rapporto con la bella vicina, e futura moglie, Omi (Klara Kristin), viene significativamente sottolineato dal notissimo e disturbante tema infantile scritto da Giorgio Gaslini per Profondo Rosso di Dario Argento. Una trovata geniale. 


Fig. 3 - Plongée

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, nel 2015, Love è un film inevitabilmente irrisolto, considerati i temi affrontati, sia da un punto di vista tecnico sia da un punto di vista estetico. Certamente colto, cinefilo (numerosi i manifesti appesi, non a caso, nella casa di Murphy, tra cui si possono riconoscere: Defiance of the Good, un porno appartenente alla golden age degli anni Settanta; il Salò di Pasolini; M - Il mostro di Düsseldorf; Taxi Driver; Freaks; e persino The Birth of a Nation di Griffith), gridato ed inquietante, anche considerando alcuni spunti d'identificazione autobiografica sparsi qua e là; sottolineato anche da una colonna sonora molto ben scelta (dal J.S. Bach delle Variazioni Goldberg ai Pink Floyd); ma indeciso tra distacco teorico (vedi l'uso frequente della plongée [cfr. la Fig. 3]) e coinvolgimento emotivo (il che spiega l'uso di un 3D iperrealista e niente affatto fuori luogo, anzi). Noé ci si è (volontariamente?) perduto. Il film non delude certamente, ma è sporco, indeciso, frenato, incompleto, e talora presuntuoso. Troppo "maschio", aggiungerei, dal punto di vista dello sguardo, dei modi e dei mondi. Però da vedere (è stato miracolosamente aggiunto da poco nel catalogo di Netflix). Tenersi lontani, in ogni caso, dal doppiaggio in italiano. E fuggano a gambe levate, ovviamente, i perbenisti, qualunque cosa ciò voglia dire. Intrusivo. 3,5/5

Il trailer del film

venerdì 16 settembre 2016

L'anima e il cristallo. Alle radici dell'arte astratta (S. Poggi, 2014)

Le mie letture "oblique". Cosa c'entra il misticismo con le scienze della natura? E il sonnambulismo con le riflessioni di Georg Simmel? E la teoria dei colori con la storia evolutiva dell'amore? E l'occultismo con il Tractatus di L. Wittgenstein? E l'individualismo nordico coi cristalli? E la musica di Arnold Schönberg con la pittura di Kandinskij? 

Per esempio, tutti hanno a che fare con questo bel libro di Stefano Poggi. Citazione preferita: "Le leggi dell'arte sono leggi della natura, per cui l'artista è anche scienziato".

Stefano Poggi, L'anima e il cristallo. Alle radici dell'arte astratta, il Mulino, Bologna, 2014.


V.M. 18 (I. Santacroce, 2007)

V.M. 18, di Isabella Santacroce, è un romanzo pubblicato da Fazi nel 2007. 

Inutile cercarlo nelle librerie: è esaurito da tempo. Io me ne sono riuscito a procurare fortunosamente una copia su e-Bay.

Il libro racconta il libertinismo e le perversioni d'una collegiale, l'Ich-Erzähler del romanzo, non ancora giunta alla maggiore età, la quale con due sue compagne, ribattezzatesi per l'occasione con l'appellativo di "spietate ninfette" (Desdemona, Cassandra e Animone), mette a ferro e fuoco un tranquillo istituto per fanciulle d'una non precisata città, in una non precisata epoca (io l'ho immaginato un po' steampunk, ma è verosimilmente ambientato in epoca tardo ottocentesca). 

V.M. 18un titolo che ricorda i vecchi flani esposti nei cinema porno degli Settanta, è il primo capitolo d'una trilogia vagamente ispirata alla Commedia di Dante, che si completa con Lulù Delacroix (2010) e Amorino (2012). 

La struttura del romanzo, invero, ricorda più che altro le Centoventi Giornate di de Sade, forse il riferimento "ideologico" più esplicito nel libro. Come nel caso di de Sade, si può dire che l'opera è "erotografica" e non pornografica, seguendo l'avvertenza di Gianni Nicoletti, nella premessa all'edizione pubblicata da Newton Compton della più nota opera del marchese, in quanto lo scopo primario del romanzo non è l'eccitazione sessuale, quanto "il suo costituirsi in sistema".

La lista di atrocità (vengono commessi svariati abusi e delitti nelle più diverse forme) e parafilie (feticismo, sodomia, soffocamento, zoofilia, coprofagia, fisting, pedofilia, incesto e via catalogando), sempre descritte con dovizia di particolari, è amplissima e da far invidia alle più articolate raccolte proposte dal dark web contemporaneo. Il tutto incorniciato in un'ordine algebrico, ossessivo e levigato, ed in eccedenti perimetri di numeri e paragrafi indentati.

L'estetica della catastrofe, catastrofe nell'accezione delle scienze fisiche, è intensissima, ed amplificata dalle lussureggianti invenzioni scenografiche descritte dalla Santacroce. Si prenda questa: "Nel gran vestibolo, rigorosamente di scure e varie tonalità verdastre, caratterizzato per la verticalità delle pareti spartite in tre ordini, con doppie colonne incassate nel muro, mensole a voluta, finestre edicola timpanate, incorniciate da lesene insolitamente rastremate verso il basso, v'era la scalinata che portava alle stanze, la cui struttura a pontile, con rampa centrale e gradini ellittici, era preannunciata da uno smisurato orologio nero lucente dalla sferica forma, che dal soffitto pendeva come un grosso cranio di un oriundo dell'Africa" (pag. 29).

Un'altra sorgente poetica è data dalle rappresentazioni degli effetti sulla mente delle droghe composte nella farmacia artigianale dalle spietate ninfette, soprattutto il famigerato "cocktail reietto". Sono descrizioni fantasmagoriche, inimmaginabili e riuscitissime, che sembrano affiorare da una versione lisergica e deragliata di Alice in Wonderland.

Il simbolismo occulto è una terza matrice del romanzo, forse la meno sviluppata, ma di cui è facile riconoscere la declinazione pop-rock, a partire dall'omaggio ad Aleister Crowley, leggendario alchimista. Ciononostante, non vi è il satanismo a ispirare la condotta delle spietate ninfette, bensì la stessa adorazione di Dio, la cui teologia viene qui interpretata in modo quantomeno inedito e fuori squadra.   

Santacroce, che in passato è stata annoverata nel gruppo letterario dei Cannibali, è senza dubbio una scrittrice di talento, che sa quello che scrive e come lo scrive. Il suo stile non è affatto anarchico. È un sistema, una cosmogonia, che si muove con disinvoltura in uno spazio letterario totale, che va dai classici della letteratura antica e latina ai manuali di medicina, dai testi religiosi al romanzo gotico ottocentesco, fino ai tomi di diritto, senza timore di confrontarsi con i rispettivi lessici specialistici. Non credo di forzare l'interpretazione, affermando che l'approccio non è estraneo al lavoro fatto sul linguaggio da Carlo Emilio Gadda. Un lavoro enorme, che consente a Santacroce di trasfigurare la realtà, di renderla icasticamente presente e allo stesso tempo impossibile ("I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo", scriveva il Wittgenstein del Tractatus) o insostenibile. Non manca qualche cedimento, nelle cinquecento pagine del libro, e a volte i termini utilizzati non sembrano essere al posto giusto (o nell'epoca giusta). Tuttavia, direi che, complessivamente, l'operazione è molto ben riuscita.

La coazione a ripetere è certamente una delle cifre stilistiche del romanzo. Si leggono passaggi ripetuti in modo estenuante, che ricordano una frenetica attività copulatoria. La sintassi, inoltre, è rivoltata come un guanto (questo è l'aspetto che salta più all'occhio, all'inizio). Essa viene manipolata e (per)vertita (nel senso che ne viene cambiato il verso), allineandosi alle perversioni di Desdemona. Il periodare è masturbatorio (in certi passaggi, obiettivamente, troppo involuto e contorto). Le frasi vengono spacchettate e il senso dislocato alla fine, perché il piacere va freudianamente differito. Tale differimento, infatti, permette la costruzione di esperimenti mentali che sondano le diverse vie possibili di soddisfacimento della pulsione erotica o di morte, facendo così da presupposto per lo stesso lavoro creativo. Del resto, "la moltiplicazione, la variazione, la complicazione, soprattutto la ripetizione, l'accumulo e l'amplificazione [...] sono caratteristiche comuni della letteratura erotica" (Nicoletti, nella "Prefazione" a Le 120 Giornate di Sodoma).

La scrittura è orizzontale, fatta di associazioni, schemi e classificazioni. Queste ultime rimandano esplicitamente agli atlanti di anatomia, alle categorie nosografiche, alle tassonomie delle scienze naturali. Le persone stesse sono viste come corpi freddi o parti di corpo, dissezionate o ingrandite come sul letto del chirurgo (un tema, ancora, prettamente sadiano), il che rimanda all'operazione compiuta sul corpo dal potere dello stato moderno, e denunciato da Foucault in numerosi saggi, o da Pasolini nel suo Salò. L'odore di formalina sembra uscire a zaffate dalle pagine del libro. E, per inciso, proprio la disinfezione e la bonifica dagli odori sgradevoli sembra essere, curiosamente, una delle ossessioni di Desdemona.
    
V.M. 18 è quanto di più estremo mi sia mai capitato di leggere. Un giudizio morale mi pare inutile e fuori luogo, anche se credo l'autrice abbia messo abbondantemente in conto lo scandalo. L'elemento rilevante da considerare, piuttosto, è che qui ogni abuso viene asservito alla logica di una legge. Abbondano codici, regolamenti, paradigmi, che quantunque ispirati all'abisso della ragione (come la religione, del resto), conferiscono legittimità logica e procedurale alle gesta delle spietate ninfette. La stessa forma ritualistica delle azioni più turpi istituisce queste ultime come espressione di una religiosità negativa. 

La legge può anche essere quella della natura. De Sade, citato in epigrafe, infatti, scriveva: "Se la natura disapprovasse le nostre inclinazioni, con ce le ispirerebbe". Essa, dunque, è necessaria per dischiudere il piacere. Ogni libertà, senza un limite, è priva di significato. Lo spiega sin dalle origini la teoria psicanalitica e, con una riflessione gigantesca, Lacan; ma anche, con parole sue, Carmelo Bene: "quando la minchia è tanta...".

I risvolti politici di tale approdo ci interrogano, a questo punto, drammaticamente, sulla capacità di costruzione del vero da parte della legge - anche di quella sbagliata; ci interrogano sul dominio della procedura ipertrofica, sistemica, autoreferenziale (Niklas Luhmann), a scapito del senso e dei valori, nel diritto moderno; ed aprono a questioni di un'ampiezza straordinaria, che ovviamente non è il caso di affrontare in questa sede.
   
Quanto alla presunta capacità di certa letteratura (e di certo cinema) di favorire vizi e impulsi criminali, rimando alla cospicua produzione scientifica che ne ha ampiamente falsificato le premesse. 

Credo che V.M. 18 diventerà un piccolo classico. Certo, si astengano categoricamente dalla lettura i lettori più impressionabili e pudibondi, se mai dovessero trovare questo libro proibito... Enter at your own risk. 4/5

giovedì 15 settembre 2016

Venezia 2016... dal divano

Ho approfittato della bella opportunità offerta da MyMovies di vedere una selezione di film della 73^ Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, e li ho visti quasi tutti. Ne ho saltati due e scartato uno, che proprio non avevo voglia di vedere. Di seguito, tutti i miei giudizi, e i link alle recensioni dei film sui quali ho pensato di dire qualcosa.


Orecchie di Alessandro Aronadio - Recensione (4,5/5)

Home di Fien Troch - Recensione (3/5)

Franca: Chaos and Creation di Francesco Carrozzini - Molto intrigante, al netto di alcuni bug tecnici e di composizione (3,5/5)

King of the Belgians di Peter Brosens, Jessica Woodworth - Recensione (4/5)

La Soledad di Jorge Thielen-Armand - Piccoli e grandi desideri, e un sogno. Molto bello dal punto di vista figurativo, ma davvero involuta la narrazione (3/5)

Il più grande sogno di Michele Vannucci - Bruttarello e, per certi versi, difficile da seguire (2/5)

Una Hermana di Sofia Brokenshire, Verena Kuri - (2,5/5)

Maudite Poutine di Karl Lemieux - Recensione (3/5)

Dark Night di Tim Sutton - Recensione (3,5/5)

Kékszakállú di Gastón Solnicki - Una domanda sola: perché? (2/5)

Liberami di Federica di Giacomo - Recensione (4,5/5)

Koca Dünya (Big, big world) di Reha Erdem - Laguna Blu in salsa turca. Molto, ma molto più gustosa. Un film poetico ed enigmatico come la follia. Una bella fiaba triste. 4,5/5

El vendedor de orquídeas di Lorenzo Vigas - 2/5

Ku Qian di Wang Bing - Due ore e mezza di tormento. Una boiata pazzesca (1/5)

Malaria di Parviz Shahbazi - Un Iran sorprendente, ma ancora sospeso tra innovazione e tradizione. Originale l'idea di partenza. Storia molto ben raccontata. Mezzo voto in più per il personaggio del musicista beatlesiano... (3,5/5)

Our War di Bruno Chiaravalloti, Claudio Jampaglia, Benedetta Argentieri - Il film scartato

Die Einsiedler di Ronny Trocker - N.d.

Hotel Salvation di Shubhashish Bhutiani - N.d.

Orecchie (A. Aronadio, 2016)

Orecchie, di Alessandro Aronadio, è il film più divertente della selezione di Venezia 2016, proposta da MyMovies.

Tra il grottesco e il surreale, il film racconta una giornata particolare di Daniele (Danile Parisi), docente di filosofia precario, il quale, svegliatosi con un fastidioso fischio alle orecchie, apprende dalla fidanzata, attraverso un post-it, della triste dipartita di un amico di cui in realtà non ricorda nulla.

Preoccupato per una certa deprivazione sensoriale, evocata in modo geniale per lo spettatore da uno schermo stretto, che nel corso del film va pian piano allargandosi, come la consapevolezza del protagonista, Daniele trascorre la giornata imbattendosi in una serie di personaggi stravaganti e talvolta sinistri. Alla fine, si presenterà al funerale di Luigi, ma scoprirà che...

Fotografato in un bianco e nero contrastatissimo, quasi espressionista, efficacemente al servizio della causa, Orecchie è un film felicemente depresso. Ci ricorda che non è sempre utile prendersi sul serio, e che certe volte l'intelligenza può essere motivo d'infelicità o essere fuori luogo. Un concetto, quest'ultimo, ben rappresentato dalla sequenza in cui una sorprendente Piera Degli Esposti gioca a fare Franca Sozzani (l'editor di Vogue, peraltro protagonista di un bel documentario presentato proprio quest'anno a Venezia), chiedendo al protagonista del film un ardito collegamento tra Kant e il topless. 

Daniele è uno straniero per il mondo (il libro di Camus fa capolino in una breve inquadratura, e i suoi echi sono spesso presenti nel film), allo stesso modo in cui il mondo è estraneo a lui. Anche la persona che dovrebbe essergli più familiare, la madre, gli appare aliena.   

Bravissimi gli attori, anche se Parisi sembra avere un po' troppe tentazioni da cabaret, con una menzione particolare per Rocco Papaleo (il parroco), Andrea Purgatori (l'otorinolaringoiatra), e soprattutto Massimo Wertmüller (il chirurgo). Incredibile, poi, il cammeo del sociologo Alberto Abruzzese (il professore) che sembra "citare", di passaggio, la teoria del rincoglionimento da TV di Hans Magnus Enzensberger (già oggetto d'attenzione del Moretti isolano di qualche anno fa).

La vita può essere accompagnata da molti fischi fastidiosi, psicosomatici probabilmente, coi quali, tuttavia, si può anche sopravvivere, senza per forza ricorrere alle classiche mediazioni istituzionali (i medici, lo Stato, la chiesa, qui peraltro oggetto d'una sistematica demolizione) per risolverli. Take it easy (rassegnati, smetti di resistere!), sembra essere la sarcastica morale del film. Se muore un io, se ne può sempre fare un altro. E non è detto che sia peggio... Decongestionante (4,5/5)

Il divertentissimo trailer del film

lunedì 12 settembre 2016

Liberami (F. Di Giacomo, 2016)

E d'un tratto l'epifania. Il film della selezione di Venezia 2016, proposta da MyMovies, che più mi è piaciuto (al momento). 

Si tratta di Liberami, di Federica Di Giacomo, un documentario che racconta parole, opere e omissioni di Padre Cataldo (e un altro paio di compagni d'avventura), esorcista di stanza a Palermo, e idolo dei fedeli. Un film (in)credibile, al quale - letteralmente - ti rifiuti di credere, che mostra il rapporto tra religione e magia al Sud (ma non solo, come si vedrà alla fine), cinquantasette anni dopo il libro di Ernesto De Martino.

In una Sicilia che emerge da una poíesis eterna, seguiamo le storie di una serie di persone che si ritengono (o sono ritenute) possedute dal demonio, e si rivolgono ai servigi di Padre Cataldo per risolvere il loro problema, il quale è persino disposto a esorcizzare al telefono (prodigi dello smartphone!) pur di accontentare i suoi tantissimi questuanti.

Liberami è un documento interessantissimo, per certi versi prezioso ed eccitante. Una finestra su un sottosuolo sociale, alimentato da riserve d'ignoranza inesauribili, che è molto più vicino a noi di quanto si possa immaginare. Dopo la fine del sacro, e il suo riapparire in veste new age, ecco tornare una superstizione d'antan, con tanto d'acqua (benedetta), sale e altri condimenti assortiti.

La cinepresa di Federica Di Giacomo non sottolinea, non commenta, non mette accenti. L'assurdo prende forma spontaneamente, senza quasi adoperare alcun espediente espressivo. Si tratta d'una rappresentazione oscena, nell'etimo, che mostra ciò che dovrebbe rimanere fuori dalla scena. Tanto, troppo. Una "posseduta", spiata a parlare della sua esperienza con un altro fedele, ne è perfettamente consapevole, ma riconosce l'effetto liberatorio di questa pubblica ordalia.

Gli esorcismi collettivi di Padre Cataldo, durante la messa, non possono non suggerire l'allestimento di un grande psicodramma collettivo, in un setting che gli conferisce legittimità. Le storie dei tanti fedeli che accorrono alla messa denunciano gli effetti perversi di famiglie disfunzionali, dipendenze, solitudini imputridite, malattie sociali e del corpo. In alcuni casi, i consigli di Padre Cataldo (autorità carismatica weberiana) costituiscono una surroga, un placebo sintomatico ai fallimenti della medicina (che sembra non funzionare bene neanche per lui), la quale non guarda più alla persona. Sullo sfondo aleggia anche quell'intimo nesso tra religione ed erotismo, di cui aveva parlato Bataille in un suo classico lavoro.

A parte un paio di sequenze, in cui Friedkin e l'Esorciccio sembrano pericolosamente fare capolino e toccarsi, Liberami è un film quadrato, onesto, quasi entomologico, montato e fotografato in modo eccezionale, e che, proprio per la sua onestà, lascia trapelare un messaggio agghiacciante. L'occhio (e ancor di più la prospettiva) della macchina da presa svela i trucchi da prestigiatore, coglie l'involontaria comicità dei rituali, registra impietoso lo sberleffo celato dei preti. Il finale con il corso di formazione per esorcisti di tutto il mondo (esiste davvero!) apre, poi, ad un mondo inaudito: i dati sul mercato dell'esorcismo contemporaneo sono sbalorditivi. 

No, non ci sono né buoni né cattivi nel film. Sale, tuttavia, incontrollabile, un'enorme "empathy" for the Devil, per parafrasare i Rolling Stones. Chapeau. 4,5/5

domenica 11 settembre 2016

Dark Night (T. Sutton, 2016)

Stessi temi di Home (Fien Troch), presentato anch'esso a Venezia 2016, e stilisticamente vicino al cinema europeo di Ulrich Seidl & co. (ma senza sesso). Catatonico, desolante e freddissimo. Con notevoli e improvvisi scatti, come nei riflessi dei rettili. Ben girato. Commento sonoro di livello (Maica Armata). Il senso di vuoto di una celebrazione in maschera c'è tutto. 3,5/5

sabato 10 settembre 2016

Maudite Poutine (K. Lemieux, 2016)

Breve storia triste di Vincent, operaio e batterista metal, che ruba una partita d'erba assieme ai suoi amici, ma se la deve vedere presto coi "legittimi" proprietari, in affari col fratello.

Maudite Poutine, di Karl Lemieux, presentato a Venezia 2016, è un film indecidibile come un teorema di Kurt Gödel. Indeciso tra rumore industriale e musica, un po' come il trash metal (bella la sequenza di Vincent che prova ad ascoltare Sibelius, ma non trattiene il bisogno di fare rumore con un blister da imballaggio). Indeciso tra lirismo e realtà (inopportuni alcuni afflati poetici; resta a metà l'amicizia di Vincent con la giovane chitarrista). Indecidibile come le relazioni umane, e il precario confine tra amico e nemico.

Pur essendo molto ben fotografato in un bianco e nero d'essai, e ben girato dal punto di vista tecnico, il film si basa su una proposta narrativa lacunosa, incoerente e inspiegabile, denunciata da un finale dilatato, sfilacciato e insostenibile. Ambisce (probabilmente) ad essere uno studio sulla dialettica della violenza, ma manca - tra le altre cose - di lucidità sociologica (Pasolini docet); peraltro, quando di tratta di fare i conti con la sua rappresentazione, rimane sospeso tra il troppo (l'ultra violenza) e l'ellissi. Irrisolto.

Il canadese Lemieux ci garantisce un'esperienza della visione per nulla banale. Tuttavia, la forma non è il contenuto. Attori comme ci, comme çaIn dubio pro reo: voto 3/5.

giovedì 8 settembre 2016

King of the Belgians (P. Brosens e J. Woodworth, 2016)

L'estasi (da ex, fuori, e stasis, "lo stare") è letteralmente l'"essere fuori da se stessi". Il termine è inteso, più specificamente, come un particolare modo di essere fuori da se stessi, che ha a che vedere con l'esaltazione dello spirito o con l'ascesi.

Ebbene, King of the Belgians, di Peter Brosens e Jessica Woodworth, presentato a Venezia 2016, è il racconto dell'"estasi" di un immaginario re del Belgio, Nicholas III, che - bloccato in Turchia da un incidente politico - deve provare a far ritorno al suo Paese. Per far questo, come Ulisse, gli tocca intraprendere un difficile viaggio attraverso un'Europa "minore", che sembra venir fuori dall'iconografia fiamminga e da certi cataloghi fotografici d'architettura socialista (ad esempio, questo).

Si tratta di un ritorno, di un nostos, metaforico; di un richiamo ad un'Europa perduta, rievocata da una colonna sonora composta prevalentemente da musica classica. Non, tuttavia, la musica di quella Europa "minore", balcanica, in cui si svolgono le vicende del film, bensì quella del canone germanico o centro-europeo. Così, il fatto che musica, eventi e paesaggi diversi non sembrino essere in conflitto assieme, e anzi convivano felicemente, fa da lezione di metodo per un'Europa che oggi s'interroga sulle sue piccole patrie, che è una babele di linguaggi (nel film si parlano svariate lingue), che ha smarrito valori e identità, che esiste solo nei diorami di mini-europe, ai piedi dell'Atomium di Brussels. 

Rifacendosi alla fantapolitica grottesca (mi vengono qui in mente il Saramago del Saggio sulla lucidità e lo Houellebecq di SottomissioneKing of the Belgians è un road movie balcanico, con mezzi improbabili e nemici da cartoon, che attraversa vari paesi dell'Est: Turchia, Bulgaria, Serbia, Montenegro, Albania. La progressiva uscita da se stesso del mutissimo Nicholas III (un fantastico Peter Van den Begin), la sua e-stasi, riesce a comunicare un'intensa, catartica felicità allo spettatore, che non può non condividerne lo smarrimento iniziale. Significativo, che tale uscita avvenga per opera dell'arte: la musica (pure quella folkloristica delle ballerine bulgare), ma anche il cinema (il film consiste nel materiale grezzo girato dal fotografo del re, ironicamente scritturato per esaltarne la figura). Da antologia, il ballo del re ubriaco sotto un cielo cianotico, accompagnato dalle note del Boléro di Maurice Ravel.  

Nel film di Brosens e Woodworth, a un certo punto, la politica diventa inaspettatamente poesia; poesia del quotidiano e delle piccole cose. Epifania. Autenticità spinta dal bisogno e dalla crisi. Saggio sulla descrescita felice dell'ambizione e dell'avidità. Verso la fine del film, il re è letteralmente nudo, mentre i suoi compagni di viaggio, senza nemmeno i documenti, sono apolidi della vita. Il finale è una sintesi dialettica, un conforto retorico, ma non inutile. Una proposta di speranza, un po' come questo semplice, ma toccante discorso del re Harald di Norvegia: http://www.repubblica.it/esteri/2016/09/06/news/re_di_norvegia_harald_migranti-147258544/?ref=fbpr. Bello assai. Voto: 4/5. Evviva il re?

lunedì 5 settembre 2016

Home (F. Troch, 2016)

Una scritta, all'inizio del film, ci avverte che la storia che stiamo per vedere è ispirata a fatti realmente accaduti; il che non fa presagire nulla di buono... 

Home, del belga Fien Troch, presentato a Venezia 2016 (io l'ho visto qui), è il ritratto di una generazione apparentemente perduta, quella dei cosiddetti "millenials"; una generazione che, come sostiene Massimo Recalcati (ad esempio, qui), non conosce più il desiderio, lo scarto tra volere e avere. 

Gli adolescenti di Home vivono in un presente (im)mediato. Immediato nel senso di istantaneo, veloce; ma anche nell'accezione di "senza mediazione" (da parte degli adulti, ad esempio). Un'immediatezza che spesso si risolve nell'incapacità di stabilire un perimetro di valori, nella saturazione della distanza tra scena e retroscena sociale (che diventa o/scenità), nell'afasia emotiva (che, a volte, è addirittura mutismo).

Uno dei temi centrali del film è proprio quello dell'incomunicabilità, che qui è sia orizzontale (tra pari) sia verticale (tra genitori e figli). Quest'ultima è ben descritta dalla sequenza in cui Kevin, uno dei ragazzi protagonisti della storia, riceve in regalo un televisore dai genitori della famiglia che lo ospita provvisoriamente, dopo aver avuto un'esperienza in carcere. Egli, tuttavia, non sa che farsene, preferendo scambiare messaggi con gli amici attraverso lo smartphone. Vecchi e nuovi media, messi a confronto, ci fanno intravedere in controluce la trama a maglia larga delle interazioni sociali contemporanee, che non si fanno quasi mai "incontro". 

La casa (home) del titolo è tutt'altro che un rifugio confortevole, né pare essere un riferimento civile o identitario (la homeland), in quanto incapace di produrre senso. Diventa, piuttosto, la gabbia di uno zoo, in cui si muovono animali miopi, anestetizzati, esausti e senza più voglia. La cui unica via di fuga sono le dipendenze, le nevrosi, o un'improvvisa, behavioristica scarica di adrenalina. L'abisso è, così, ineluttabile, ma senza neanche il senso del tragico.

Il film è girato in 4:3 (il formato televisivo), suggerendo un'estetica da documentario. La fotografia non presenta soluzioni innovative o ricercate, alludendo al cinéma vérité. Il quotidiano è quello della TV contemporanea, in cui tutto scorre, senza che si riesca a sottolinearne un passaggio, o ad afferrare un pezzo di anima. La regia è in background, ma è un merito. Bravi gli attori. Voto: 3/5. Opprimente.

mercoledì 8 giugno 2016

Emily the Strange. Lost, Dark & Bored (Vol. 1) (R. Reger & B. Parker, 2006)

Emily the Strange (Emily la stramba, in italiano) è un fumetto ideato da Rob Reger e illustrato da Buzz Parker. L'edizione qui recensita è quella che raccoglie le prime tre uscite (Lost, Dark e Bored) in un unico volume, edito dalla Dark Horse nel 2006, adesso disponibile anche in formato e-book su AmazonIl fumetto è lo spin-off di una popolare e fortunata linea di abbigliamento e accessori, che ha poi progressivamente raggiunto una sua autonomia estetica e di contenuti.

Emily the Strange è un'opera felicemente infelice e orgogliosamente inattuale. Ma perfettamente integrata nell'odierna cultura pop, con tutta la connotazione nostalgica e il gusto del pastiche che caratterizza il discorso postmoderno. È una miscela rinfrescante di macerie, che mette assieme Cioran e la Famiglia Addams, il neogotico e la popular music, Edgar Allan Poe e il cinema di Georges Franju, i videogiochi a 8 bit e Sir Francis Bacon ("There is no excellent beauty that hath not some strangeness in the proportion"). Il gusto per la citazione è particolarmente ricercato nel caso della musica: Beatles, Frank Zappa, Miles Davis, John Cage... e un'intervista tutta da leggere a Marilyn Manson (con risposte scritte da lui/lei medesimo/a). 

Emily eleva l'ennui a condizione umana privilegiata, capace d'assicurare esisti epistemologici imprevisti, soluzioni esistenziali di grande originalità, e un'escatologia perversa, tra morfologie emergenti, creature improbabili, topologie capricciose dello spazio-tempo, e ibridazioni stilistiche incredibilmente ardite (ad esempio, con la psichedelia). Dà all'abbandono, al perdere e al perdersi (lost) la dignità d'un percorso di serendipità. Sarà pure "gettata nel mondo", ma ne saggia il gusto obliquo con una certa incoscienza pre-adolescenziale. Il suo caleidoscopio negativo serve una gnoseologia capovolta e inaudita, ma coerente.

Nell'evocare i giornaletti d'altri tempi, Reger e soci ne hanno anche resuscitato lo spessore dei testi e la testimonianza sociologica. Emily è deviante per sopravvivere, e nel mondo tutto suo prova l'arte della fuga da un altro mondo, quello reale, letteralmente insopportabile. Le tavole sono popolate da numerosi calembour e da molta ironia, che ci ricordano il grande potenziale eversivo e straniante del linguaggio: "I'm so bored to death today, I'm even bored OF death", leggiamo in un balloon. Le avanguardie artistiche del Novecento non sono lontane. Per Benjamin esse erano correlate all'ascesa del nuovo ceto borghese. Qui, ciò che spinge dietro le quinte del teatro della storia, sono gli adolescenti del nuovo millennio, figli della crisi economica, dei valori, e della babele dei significanti. Il vero sottotesto del fumetto è forse proprio questo: una critica ferocissima alla società dei consumi, suonata con accordi minori, in cui l'acquisto diventa una prigione, anticipando un terrore profondo e niente affatto po(i)etico.

Il secondo volume è già nella lista dei desideri. Capolavorissimo!

mercoledì 1 giugno 2016

The Juliette Society (S. Grey, 2013)

Sinceramente, mi aspettavo di più da questo suo primo “romanzuolo”. Sasha Grey è un personaggio poliedrico. È felicemente spregiudicata, intelligente, forse anche colta, a dispetto di tutti i possibili stereotipi sulla sua precedente attività nel mondo del porno; ed ha alle spalle buone e diversificate letture (e visioni), che qui e là emergono nel racconto. Il fatto è che tutte queste influenze vengono ostentate in modo piuttosto banale nel libro, rinunciando paradossalmente a quella che potremmo definire un’“erotica della citazione”. Perché, ad esempio, non far riconoscere i vari film al lettore, stipulando con lui un contratto di complicità più sofisticato? Sì, un certo sapore per la scrittura c’è (a tratti, sembra di riconoscere delle cose di Chuck Palahniuk). I “vuoti d’aria”, tuttavia, sono davvero troppi; l’intreccio non sembra mai “sbottonarsi” (absit iniuria verbis), ed è anche poco originale (mentre è interessante il soggetto, peccato!). Abbondano, infine, gli ingredienti davvero poco plausibili. Anche nei passaggi più hot, non sembra mai esserci quello slancio in più, che lo avrebbe reso a suo modo un evento, un crossover virtuoso con il suo ex-cinema, anche se forse non era proprio questo l’intento della Grey. Un’opera prima un po’ anemica, sebbene superiore a certa letteratura contemporanea per signore, che potrebbe comunque anticipare una carriera interessante. Provaci ancora Sasha...

lunedì 23 maggio 2016

Sesso, sé e società (C. Rinaldi, 2016)

È da pochissimo uscito, per i tipi della Mondadori Education, il libro di Cirus Rinaldi, intitolato Sesso, sé e società.

Si tratta di un lavoro straordinario e necessario, per il quale Cirus va fortemente ringraziato e ammirato. Un lavoro necessario, perché tratta di temi che troppo a lungo sono stati periferici, sotterranei, o addirittura ostacolati (ricordo ancora l’amaro sfogo di Renato Stella, nella introduzione a Eros, Cybersex, Neoporn, di qualche anno fa) nella riflessione sociologica del nostro Paese, nonostante siano di cruciale importanza. 

Un lavoro straordinario, poi, per la sua difficoltà, ampiezza, completezza e maturità. Cirus ha portato a termine una vera e propria impresa. Il solo capitolo su “Sessualità e teoria sociologica” è roba da mandare al manicomio uno scienziato sociale (o quantomeno me…).

Ho letto il mio nome tra i ringraziamenti, assieme, tra gli altri, a quello di Kenneth Plummer, e ne sono lusingato e felice. Ho avuto la fortuna di seguire Cirus per un breve periodo della sua formazione universitaria, e sono adesso contento di vederlo navigare con sicurezza nelle perigliose acque di un’accademia sempre più “infeltrita”. 

Un grande in bocca al lupo per questo lavoro, che costituirà certamente un punto di svolta nella letteratura sociologica italiana. Questi non sono solo libri che “dicono”, sono soprattutto libri che “fanno”… tante cose. Congratulations, buddy!

mercoledì 11 maggio 2016

Ore Diciotto in Punto (G. Gigliorosso, 2014)

Ore Diciotto in Punto è un film siciliano, interamente autoprodotto, diretto da Giuseppe Gigliorosso. 

Come scrive lo stesso regista, nelle pagine del corposo libretto, allegato al DVD: "è un film completamente indipendente, realizzato senza contributi pubblici, senza 'padroni', un film che ha voluto vedere la luce a tutti i costi. Gli unici produttori del film siamo noi, sono i tecnici e gli attori". Per questa ragione, è quasi un miracolo che sia stato realizzato, sia uscito nelle sale e, oggi, sia pure disponibile in DVD (anche se non si tratta di una vera e propria distribuzione).

Ore Diciotto in punto non è solo fuori dal mercato dal punto di vista economico, ma è anche fuori dal "mercato" delle idee e dalla trivialità del cinema italiano contemporaneo. È un film diverso - meravigliosamente diverso, verrebbe da dire.

A proposito di miracoli, la trama è presto detta. Nell'effervescente e claustrofobico "ufficio traghettatori dell'aldilà", Paride (una specie d'angelo fuori catalogo) incappa in una "pratica" piuttosto complicata: l'aspirante suicida Nicola (un allampanato Salvo Piparo) non riesce a realizzare l'insano gesto, perché "distratto" da una misteriosa telefonata. È un'anomalia, un'imprevista curvatura spazio-temporale. Riuscirà Paride ad evadere la pratica? Ed in che modo? 

Naturalmente, non si tratta d'un tema nuovo nella storia del cinema, si possono ricordare, ad esempio, Accadde in Paradiso (A. Rudolph, 1987) o l'ancora più noto Il paradiso può attendere (W. Beatty e B. Henry, 1979), a sua volta remake di L'inafferrabile signor Jordan del 1941; per non parlare dei tanti riferimenti letterari. Ma qui abbiamo alcune piacevoli novità, e un certo gusto per la sperimentazione a più livelli.

Ore Diciotto in Punto è una favola contemporanea, un poemetto ispirato e a tratti commovente, una composizione delicatamente surreale. I personaggi sono disegnati come in un fumetto, e gli attori svolgono bene il loro compito (con una menzione speciale per Lollo Franco), facendo prevalere la maschera e il corpo sull'interpretazione e le parole. Nicola e la Duchessa (Valentina Gebbia) sono archetipi perfetti d'un racconto senza tempo, se non fosse per l'espediente diegetico del telefono cellulare. Ciò rende il film adatto praticamente a tutte le età... e le sensibilità.

Un aspetto che mi ha particolarmente colpito è quello di avere reso Palermo (fotografata splendidamente da sguardi esperti e da ottiche niente affatto low budget) un luogo dello spirito anziché un luogo reale, concreto, storicamente determinato. Con la rinfrescante conseguenza, che non è dato rintracciare alcuno stereotipo isolano, come è prassi in molti film girati in Sicilia. Ci sono solo degli accenti costieri nelle parole, che accarezzano i dialoghi con un tocco d'"esoticità".

A dispetto della leggerezza del tutto, sullo sfondo s'intravedono comunque letture importanti e profonde, e alcune citazioni cinematografiche d'autore (il bagno nella fontana, solo per citarne una). La sceneggiatura e la struttura del racconto sono notevoli. Il gioco di rimbalzi tra apparenza e realtà, tra fantastico e verosimile, tra destino e caso (o caos?), tra determinismo (le regole, ad esempio) e libero arbitrio (temi cari a Émile Durkheim, uno dei primi studiosi ad occuparsi scientificamente del suicidio...) è sviluppato davvero molto bene, tradendo una certa densità filosofica. Brillante il lavoro sulle emozioni dello spettatore, esito d'un fine lavoro di montaggio e regia (Gigliorosso si ritaglia anche un cammeo nel film), e di una soundtrack che veste il film con eleganza. Il finale, poi, è straordinario, e alcune trovate nella messa in scena possono entrare di diritto in una nuova antologia del cinema. Bravi tutti, con premi e riconoscimenti meritati. 

Una telefonata può salvare la vita, ma anche un bel film "un ci babbìa". Ossigenante. 4/5

Il trailer del film

martedì 29 marzo 2016

La Dame dans l'auto avec des lunettes et un fusil (J. Sfar, 2015)

Mi capita di pensare, ormai con una certa assiduità, che - a parte per l'impiego di svariate diavolerie digitali - il cinema abbia oramai esaurito gran parte delle sue possibilità espressive. Ebbene, La dame dans l'auto avec des lunettes et un fusil (2015), di Joann Sfar, è uno di quei film che ti fa cambiare immediatamente idea.

La segretaria Dany (interpretata da una bellissima e bravissima Freya Mavor) viene ingaggiata dal capo (Benjamin Biolay) per un incarico extra a casa sua. Nonostante alcune ambiguità circa la natura dell'incarico e le intenzioni della moglie del capo (Stacy Martin), Dany porta a termine il lavoro, ma ora deve ritornare a casa...

Mescolando quasi una decina di sottogeneri, con una colonna sonora ispirata e frizzante, utilizzando tecniche di ripresa e montaggio vecchie (ad esempio, lo split-screen, che rimanda al primo De Palma, qui fatto scorrere come le strip d'un fumetto) e nuove (l'editing "a scomparsa", che suggerisce la fantasmaticità della narrazione quotidiana), sfruttando una fotografia da rotocalco per signora degli anni Settanta e una manciata di grandi idee d'autore, Sfar è riuscito a confezionare un discorso d'alta scuola sul cinema come illusione, sulla paura e il desiderio.

Facendo leva su tecnica e intreccio, il regista è capace di farci vedere simultaneamente sia la storia di Dany così com'è, sia come lei avrebbe voluto che fosse. È come se la protagonista guardasse un film di cui è protagonista. L'escamotage ha una doppia valenza: da una parte, allude al lavoro psichico degli individui, ai suoi dilemmi, alle sue aporie, alla complicata struttura del desiderio, che fa della mancanza, dell'ellisse la sua matrice essenziale; dall'altra parte, la messa in scena ci interroga sul nostro ruolo di spettatori che masticano le paure in sicurezza, favorendo la nostra ginnastica ermeneutica. Il gioco di specchi, così, si amplifica e diventa labirintico, sebbene il regista non ci faccia mancare alcuni ausili per orientarci (geniale la mappa stilizzata dei movimenti dei protagonisti nella notte, servita su split-screen). Ci sono i doppi dei doppi, il caso gioca il suo ruolo e diventa caos dal punto di vista dei singoli. Esso è semplicemente un ordine che non si capisce, come voleva H. Miller (Tropico del Capricorno)Le traiettorie s'incrociano, viaggiano parallele per un po', e poi si separano. Il destino si scrive e si riscrive continuamente, come la verità (un tipico tema rohmeriano).

La dame dans l'auto avec des lunettes et un fusil è un gran bel film, che potrebbe ambire allo status di classico. Capace di catturare vari tipi di spettatore, ma profondamente stratificato e complesso al suo interno. Una delizia per cinefili. Se tecnicamente ricorda molto De Palma, i riferimenti ad altri maestri non mancano (i maestri del "giallo" italiano, la nouvelle vague francese, soprattutto Chabrol, lo Scorsese di After Hours, e poi Ulmer, Lynch, Tarantino, Spielberg...). Ma il riferimento più denso, una densità che si può quasi toccare, credo sia quello ad Alfred Hitchcock, non a caso il padre spirituale di De Palma: un persona normale (innocente) precipita improvvisamente in una dimensione fuori dall'ordinario (o viene incolpata ingiustamente), e deve provare a uscirne. Un po' ciò che diceva Adorno sul jazz: "getting into trouble and out again" (in Scritti Sociologici, Einaudi, Torino, p. 293). Non c'è la stessa sapienza del maestro nel dosare bene gli ingredienti, non c'è la stessa leggerezza di tocco, ma ci siamo molto, molto vicini.

Cinema d'altri tempi (si tratta d'un remake, a sua volta tratto da un romanzo di Sébastien Japrisot) in salsa postmodern. Forse ho ragione, non ci sono più i film d'una volta. Ma quelli d'una volta possono essere fatti ancora meglio. Quasi un capolavoro. Fumettaccio bipolare. 5/5

Il trailer del film