lunedì 26 dicembre 2016

Irrational Man (W. Allen, 2015)

Nel 2002, lo psicologo Daniel Kahneman vinceva il premio Nobel per l'economia, come riconoscimento per i suoi studi sulle decisioni in condizioni d'incertezza, uno dei grandi temi di riflessione delle scienze economiche contemporanee, e non solo. Molte sue conclusioni sono riassunte in un libro del 2011, intitolato Pensieri lenti e veloci, edito in Italia da Mondadori. In questo libro, Kahneman, tra le altre cose, mette in discussione l'idea secondo la quale la razionalità prevalga nelle decisioni umane. In realtà, egli sostiene, gli individui sono sempre esposti a varie forme di condizionamento, che spesso incidono sulla capacità di giudicare e agire lucidamente. Come corollario di questa tesi, egli afferma che persino le decisioni prese "al volo" possono risultare più efficienti di quelle effettuate dopo lunghi e complicati ragionamenti, necessari a valutare i costi e i benefici dell'azione.

Irrational man, di Woody Allen, sembra aver preso spunto proprio dalle ricerche di Kahneman. Il film racconta la storia di un docente di filosofia, Abe Lucas (interpretato da Joaquin Phoenix), etilista e seduttore, che, trasferitosi in una nuova sede universitaria, si trova a fare i conti con gli esiti imprevisti ("perversi", come dicono i sociologi) delle azioni individuali, verificando l'inadeguatezza, nella prassi, di molte riflessioni teoriche esposte nei manuali di storia della filosofia. 

È lo stesso professor Lucas, alle cui lezioni assistono in parte anche gli spettatori, a spiegare ai suoi studenti la distanza spesso incolmabile tra l'enunciazione di un principio morale e la sua concreta applicazione. Ad esempio, bisogna sempre dire la verità? E se tale verità comportasse il sacrificio di una persona? E la legge va sempre obbedita? E non obbedivano alla legge, forse, i criminali nazisti? (La Hannah Arendt della Banalità del male è citata esplicitamente nel film).  

Ciò che impedisce alla razionalità di produrre gli esiti previsti è anche la contingenza delle azioni degli altri. Intuizione, questa, di un altro premio Nobel per l'economia: Herbert A. Simon, che ha coniato per questo il concetto di "razionalità limitata" (bounded rationality). La somma di una moltitudine di cause può produrre il caos. O, almeno, ciò che viene percepito come caos (o destino) (Eric Rohmer, nel cinema contemporaneo, è stato un grande narratore di storie di questo genere). E poi c'è il sentimento, da sempre proposto come il contraltare della ragione. E c'è il desiderio, qui incarnato dalla brillante studentessa Jill Pollard (una Emma Stone davvero molto espressiva), con la quale Lucas finisce per avere una relazione. 

Poste queste premesse, qualsiasi scelta diventa un'opzione tutta a carico del soggetto, a cui mancano efficaci strumenti di orientamento. Egli diventa l'ingranaggio d'un meccanismo troppo complesso per essere compreso, e il cui libero arbitrio può avere un prezzo incalcolabile da restituire.

È soprattutto il senso, a questo punto, che viene a mancare; un senso univoco. Ciò che la filosofia continentale ha cercato per secoli, per poi arrendersi ad uno sforzo impossibile, e che invece la filosofia analitica ha finito semplicemente per descrivere, interessandosi delle sue strutture e dei suoi meccanismi. Anche a questo si accenna brevemente nelle lezioni del professor Lucas, la cui posizione sembra ricalcare quella di Stephen Stich (La frammentazione della ragione, trad. it. il Mulino, Bologna, 1996), il quale respinge l'equazione razionalità=verità, giungendo ad un pragmatismo epistemologico radicale, in cui il ragionamento non serve a comprendere la verità, ma è un mero strumento da usare. Di qui, un relativismo estremo che in questa sede assume, tuttavia, una connotazione del tutto positiva. 

D'un tratto, dunque, il riscatto. Lucas, per effetto del caso, e d'un forte slancio emotivo seguito all'evento, scende a patti con la prassi. Rovescia il postulato kahnemaniano, secondo cui la paura di perdere è più forte del piacere di vincere. Comprende finalmente cosa vuol dire l'adattamento del significato al suo contesto. S'illude d'aver risolto il rompicapo, e anche la sua sintomatica impotenza sessuale. Costruisce un'impalcatura (perfetta, come il delitto?) di senso, ma... cade. Sì, perché è Abel(e). Egli, in fondo, è la vittima del racconto, a differenza di ciò che potrebbe apparire in un primo momento. Ed è questa l'ultima lezione del professore: la questione morale, purtroppo, è tutt'altro che decidibile, come un teorema di Gödel. Vince il legame sostenuto dal consenso della comunità, la procedura, la rinuncia al libero arbitrio, che viene devitalizzato per essere consegnato ai macchinari del Leviatano hobbesiano.

Irrational man è qualcosa che si avvicina a un capolavoro, se non fosse per alcune prove d'attore che non mi hanno convinto (Joaquin Phoenix, su tutte). L'ombra di Ingmar Bergman sembra oramai coincidere perfettamente con quella di Woody Allen, che ritorna su temi a lui cari (Crimini e misfatti, Match point ecc.). Poggiando su una messa in scena asciutta ed essenziale, il regista americano ci propone, al contempo, un'epistemologia ed un'escatologia, sviluppando una copia in negativo, a specchio, di Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij; una copia in negativo, dove la colpa s'inverte provvisoriamente in etica. L'epistemologia è quella costruttivista d'un mondo fatto di apparenze e auto-inganni, in cui è difficile distinguere il vero dal falso (significative le inquadrature "sporcate" continuamente da alberi e frasche, cioè dalla natura); un mondo incorniciato in un perenne, schopenaueriano verosimile (intrigante, in questo senso, le allusioni al processo, luogo per eccellenza del trionfo del verosimile). L'escatologia, invece, è quella nichilista, d'un mondo che non conosce alcuna razionalità o giustizia giusta, heideggerianamente in balia del caos determinato dall'intreccio delle azioni umane. Non ci sono premi per le azioni morali, ammesso che queste siano effettivamente catalogabili. E non c'è speranza. Solo auto-inganni, per decidere di avvicinarsi piano piano all'abisso, come ha cinicamente ribadito lo stesso Allen in un'intervista di qualche anno fa. 

Nera magnificenza esistenzialista. 5/5