mercoledì 18 gennaio 2017

Carol (T. Haynes, 2015)

Una storia tenera e drammatica, che comincia in un negozio di giocattoli: il luogo dei desideri per eccellenza. L'ambientazione e la fotografia ispirate alle copertine di LIFE degli anni Cinquanta e ai quadri di Edward Hopper. Un taglio delle inquadrature pudico, insolito e molto coinvolgente (sembra di starci dentro al film, di fare un viaggio nel tempo). Una colonna sonora nostalgica e viscerale. La recitazione MONUMENTALE di Cate Blanchett. E quella sensazione che ti accompagna per giorni, dopo la visione... Tutto questo, e molto altro, è Carol di Todd Haynes (2015), dove, nel disordine del desiderio, le persone non sono più giocattoli. Nato già classico. 5/5

martedì 17 gennaio 2017

Il volto di un'altra (P. Corsicato, 2013)

Il cinema italiano è vivo e lotta con noi. Il ritorno di Pappi Corsicato alla regia, dopo Il seme della discordia (2008), è fulgido e irresistibile. Il volto di un'altra, a mio avviso, è uno dei più bei film italiani degli ultimi anni.

Intanto, perché è assolutamente estraneo alla depressa "poetica" del cinema italiano d'inizio secolo. Felicemente effervescente, macabro e spiazzante, visivamente potente. In secondo luogo, perché riesce a divertire spettatori colti e medi, regalando a ciascuno motivi per uscire dal cinema satolli e beati. In terzo luogo, perché, pur apparendo disimpegnato in superficie, è un film che assesta un bel po' di colpi bassi alla società di oggi, rinfacciandogli certi tic e una cattiva propensione all'accettazione della volgarità (soprattutto televisiva). Sì, è un po' ingenuo sociologicamente, ma non banale: ciò che dice, lo dice con uno stile unico e personalissimo. E, dunque, bene così. Fra i temi, il triangolo dialettico anima-corpo-società, con più d'una allusione al Dorian Gray di Wilde. Il senso di posticcio è immanente, il film stesso è riflessivamente finto, è la chirurgia plastica di un film; ciò gli consente di denunciare la "falsità" semiologica di qualsiasi messinscena (anche quella delle cerimonie sociali).

E poi è un film che diverte come non mai. Un divertimento che può essere motivato ora dalla pulsante, fantasmagorica, scintillante messa in scena, contrappuntata da trovate estetiche spesso geniali, che giocano a sedurre continuamente gli occhi dello spettatore; ora da alcuni momenti elegantemente comici, in cui si ride di gusto; ora dal fatto di riuscire a riconoscere le tante citazioni cinematografiche disseminate nel film (da Occhi senza volto di Franju a Phantom of the Paradise di De Palma, dal Rocky Horror Picture Show a Metropolis di Fritz Lang, da Brazil di Gilliam a certi motivi felliniani, solo per citarne alcuni).

Si tratta di una pellicola in cui sembrano collassare lo spazio (ad esempio, Bolzano che si trasforma in Tucson, Arizona) e il tempo, che mescola agilmente una manciata di sottogeneri: il melò in auge tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta (quello dei film con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson), il cineromanzo, il fumetto pop, l'horror d'antan (primo fra tutti, considerato il tema del film, Frankenstein), la commedia all'italiana. 

Tutti in forma gli attori: dal cinico chirurgo dandy (Alessandro Preziosi, René), alla bellissima Laura Chiatti (Bella); dalla iconica Iaia Forte all'ironica (in quanto rifattissima) Rosalina neri. Sicurissima, matura e divertita la regia di Corsicato.   

Da antologia il balletto complice tra Preziosi e la Chiatti, che allude vagamente a quello tra Uma Thurman e John Tavolta in Pulp Fiction. E da antologia il finale, che ovviamente qui non svelo, ma che pare anticipare alcune odierne riflessioni sulla post-verità. Un finale che mi ha ricordato una sequenza di Tommy degli Who. Dotato di una certa densità filosofica e sociologica, nel momento in cui scopriamo che "la verità fa ridere". L'operazione sembra rileggere il senso del programma estetico surrealista bretoniano: qui la giustapposizione di figure e simboli («l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio») si sposta dal sogno al motto di spirito, dall'inconscio al riso... che, alla fine, ci seppellirà tutti. Supercalifragilistichespiralidoso! 5/5

Il trailer del film

venerdì 13 gennaio 2017

L'amore e la violenza (Baustelle, 2017)

L'amore e la violenza, l'ultimo disco dei Baustelle, è un lavoro di ricerca e (ri)scrittura notevolissimo. Gramscianamente "organico", riesce a miscelare, senza scarti, musica alta e musica bassa, pop e sperimentazione, vecchio e nuovo, in una problematizzante, disperata sintesi postmoderna. Parole e sonorità spaziano da Nicola Di Bari ai Goblins di Claudio Simonetti, da Viola Valentino a Rick Wakeman, da Don Backy a John Lennon, da Franco Battiato al maestro Riz Ortolani, da Sandokan degli Oliver Onions a Fabrizio De André, solo per citarne alcuni. Viene sistematicamente evitata certa standardizzazione imperante nella pop music contemporanea, e proposte oblique progressioni armoniche e versi fuori squadra, come in un processo evolutivo mutante. Mi ha evocato il languore di quei lividi tramonti urbani, che disegnano le ombre e le lacune delle nostre periferie. Per molto meno, nel caso dei Talking Heads, si parlò di capolavoro. "Complimentazioni", e molte stelle... al collasso. Sublime.