lunedì 27 marzo 2017

La corrispondenza (G. Tornatore, 2016)

All'asserzione: «Il sole sorgerà domani», il filosofo Bertrand Russell era solito rispondere: «Non avete assolutamente alcuna valida ragione per pensare che quanto è accaduto in passato debba continuare ad accadere in futuro». Si riferiva, tra le altre cose, al difficile rapporto "epistemologico" che abbiamo con le stelle. Ciò che pensiamo di vedere nel cielo, infatti, non è che il riflesso di una cosa che potrebbe essere morta già da molto, molto tempo, e che ha lasciato al suo posto un buco nero. Coi nostri sensi, dunque, finiamo col vedere ciò che non è più.

Intorno a quest'idea si sviluppa l'ultimo film di Giuseppe Tornatore, La corrispondenza, che ritorna al thriller metafisico, dopo la buona prova de La migliore offerta (2013), e senza dimenticare lo straordinario ed indimenticato Una pura formalità (1994).

Il professor Edward ("Ed") Phoerum (Jeremy Irons), docente di astrofisica all'Università di Edimburgo, ha una relazione segreta con una sua studentessa fuori corso (Olga Kurylenko, nel ruolo di Amy Ryan). Un giorno scompare improvvisamente, ma continua in qualche modo a comunicare con la donna di cui si è perdutamente innamorato.

La corrispondenza del titolo allude sia alla felice corrispondenza di sensi tra i due amanti, sia alla complessa comunicazione che avviene tra loro, quando il professore scompare. Il film, infatti, è una sorta di meta-testo, composto da vari tipi di messaggi, i quali assumono ora la forma di un sms, ora di un video registrato su un compact disc, ora di una seduta su Skype, ora di una lettera con tanto di sigillo in ceralacca. Non ho letto il romanzo, edito da Sellerio, uscito in contemporanea al film, ma sarebbe interessante vedere come la storia è stata trattata sulla pagina scritta. 

La riflessione di Tornatore non è estranea ad alcune questioni sollevate dalle scienze esatte contemporanee. Non a caso Ed Phoerum è un professore di astrofisica. Anzitutto, entrambi i personaggi principali sembrano moltiplicarsi seguendo formule frattali: Ed perché si riproduce in modo geometrico su vari supporti testuali, ed Amy perché nella sua attività di stuntgirl interpreta vari personaggi che muoiono, per poi aprire gli occhi subito dopo il ciak. Ad ogni mutazione, tuttavia, continuano a rimanere loro stessi, autosomiglianti, come nei cosiddetti fenomeni a invarianza di scala (nel caso di Amy, si ripetono addirittura alcuni eventi precedenti e traumatici della sua esistenza). Vi è, inoltre, una sorta di entanglement quantistico tra Amy e il professore, che li fa rimanere legati a dispetto delle avversità che incontrano (nel caso di Ed, un'avversità esiziale). Non-separabili, del resto, sarebbero tutte le particelle dell'universo, stando al paradosso di Einstein, Podolsky e Rosen.

Il classico tema del doppio, dunque, viene qui esplorato ed espanso in modo interessante, salvo cedere ad alcune interpretazioni di matrice psicanalitica che ho trovato un po' troppo semplicistiche e scontate (vedi, ad esempio, il rapporto di Amy con la madre). Belli invece i riferimenti (non pochi) al concetto junghiano di sincronicità, agli "atti creativi del tempo" che attingono ad archetipi psichici, all'alchimia del desiderio. Desiderio che per lo spettatore rimane tale, in quanto non vediamo mai i due protagonisti fare l'amore. Essi sono dislocati all'interno di una matematica negativa permanente.

Ma il tema più profondo del film, a mio avviso, riguarda il dilemma post-positivista tra realtà e finzione nell'epoca della riproducibilità tecnica. Il dilemma inverso tra la verità dei sogni e la finzione della tecnica (l'impressione di posticcio che trasmettono le conversazioni online andrebbero in questa direzione, anche se temo che non siano una scelta consapevole di Tornatore, bensì l'esito di una cattiva mise-en-scène). Il cimitero, così, non sembra avere più senso (Amy lo impara nella prima parte della storia, quando al cimitero ci va per cercare Ed), come in quella canzone dei Baustelle che recita: 

I cimiteri non danno pensieri,
sei tu che ti sbagli, se stanco, disperi
e piangi per colmare i buchi dell’assenza.
Vive come il pieno la vacanza e non spira mai.

Alla fine del film, però, si piange. Monta una sorta di rimpianto universale. Tornatore sa da sempre come manovrare le emozioni dello spettatore. Molto bello è il discorso finale del professore sugli errori che ci rendono mortali. Qui c'è tutta una Weltanschauung della colpa, che ha una lussuosa tradizione, e che affonda le proprie radici nella notte dei tempi: "Se solo ti avessi incontrata prima...". Su questo si è detto, si è scritto e si è letto di tutto. Il regista, tuttavia, riesce nell'intento di aggiungere qualcosa di nuovo. 

Ma veniamo ai difetti del film. Il contenuto - va detto - è di gran lunga migliore della forma, e poiché qui si parla di cinema, che è esperienza della visione, il peccato è mortale. Se ne è forse reso conto lo stesso Tornatore, il quale ha fatto uscire contemporaneamente anche un romanzo tratto dal film, confessando sulla quarta di copertina quanto l'immagine possa rubare alla pagina scritta. Il film è pessimo da un punto di vista tecnico, girato in brutta calligrafia, perfino rozzo sul versante della computer grafica. A tratti è recitato davvero male, e qui le responsabilità ricadono soprattutto sulla prova della Kurylenko; in alcune sequenze, sembra addirittura di rivivere un film dell'ultimo Dario Argento, ed è quanto dire. La colonna sonora di Morricone è messa in secondo piano, e pare un po' gettata via. Ci sono anche delle incertezze nella sceneggiatura, il film appare prolisso, e alcuni giri sono a vuoto (ad esempio, alcune sequenze girate nella residenza di Borgo Ventoso). Insomma, sembra d'avere davanti una brutta scatola di cioccolatini, che però ne contiene alcuni molto buoni. Come si fa a non comprarla? (A proposito di prodotti, l'abuso del product placement in questa pellicola è davvero irritante!). 

Non sono mancati, comunque, i premi. 

Le stelle morenti continuano a brillare per molto tempo ancora dopo la loro morte. Accade al professor Phoerum, il messaggero, il "portatore" di notizie, come suggerisce lo stesso cognome, il quale è un'illusione ottica già da prima della sua scomparsa; per la moglie - ad esempio - che ne scorge dei riflessi ormai ingannevoli. Mentre per Tornatore si può parlare di un'eclissi. Un'eclissi o un collasso? Per questo bisognerà aspettare il prossimo bagliore di luce. Bello, ma non troppo. Davvero un gran peccato! Voto 3/5

sabato 4 marzo 2017

Café Society (W. Allen, 2016)

"Socrate dice che una vita non analizzata non ha valore. Ma quella analizzata non è un affare". 

Si chiude così, in crescendo, dopo un inizio un po' frenato, Café Society, l'ultimo film di Woody Allen. Un film sul dilemma tra rimorsi per gli sbagli compiuti e rimpianti per le cose mai fatte ma desiderate, che - come spesso accade nei lavori del regista newyorkese - è una lucida e a tratti cinica riflessione sulla condizione umana.

La storia racconta del giovane Bobby Dorfman (uno straordinario Jesse Eisenberg), che lascia la famiglia di origine ebree, nel Bronx, per raggiungere lo zio Phil Stern (interpretato da Steve Carell), un influente impresario cinematografico, nella Hollywood degli anni Trenta. Qui riuscirà ad entrare in contatto con l'alta società e, soprattutto, conoscerà Veronica (Vonnie) (Kristen Stewart), segretaria dello zio, con la quale intreccerà una relazione complicata, che è poi al centro del film.

Meno divertente che in altre occasioni, la pellicola è un'occasione per ragionare di sentimenti e di potere, di filosofia e di religione, di etica e di prassi. Ciò avviene soprattutto nella seconda parte, con il ruolo da coro greco affidato a Leonard (Stephen Kunken), il cognato di Bobby, il quale fa appunto da coscienza critica e guida etica tra i dilemmi sollevati e in qualche modo indagati nel film. Solo abbozzata, invece, è la café society hollywoodiana, che rimane sullo sfondo e sembra descritta come in certi articoli di gossip in voga anche oggi in certe rubriche di giornali e riviste popolari. La società d'alto bordo raccontata da Allen è, in realtà, solo un pretesto per un ennesimo sguardo in profondità sulle relazioni tra le persone.   

La mancanza di una risposta ai vari dilemmi posti dal film, la mancanza anche di una risposta escatologica (vedi la sequenza in cui Rose Dorfman (Jeannie Berlin) discute col marito sull'assenza di una dimensione ultraterrena nella religione ebarica), è essa stessa una soluzione. Allen sembra suggerici che non ci si può opporre alle leggi millenarie, alla sceneggiatura "scritta da un sadico che fa il commediografo", di un'umanità rimasta in balia del desiderio (un discorso che Bobby riprende nella seconda parte del film). Leggi che talvolta si possono spiare da una fessura imprevista, come quando ti accordi di amare due persone con lo stesso nome: Veronica. Fatto, quest'ultimo, che sembra concepito dal caso; caso, però, che non esiste. Si può sognare, ma "i sogni sono sogni". Cioè, in definitiva, un inganno; sebbene un inganno necessario. Ed ecco l'amara poetica esistenzialista più volte illustrata dal regista anche in altre occasioni.

Café society non è il miglior film di Woody Allen, ma l'impronta del maestro c'è. Tutti gli attori sono bravissimi, Jesse Eisenberg, Steve Carell e la scintillante Black Lively su tutti. Tecnicamente impeccabile, e con bellissimi movimenti di camera: la sequenza d'apertura ai bordi di una piscina è un'autentica boccata d'aria fresca. Fotografa Vittorio Storaro. E si vede. A fine proiezione, il languore c'è. E forse anche la catarsi. Ed è ciò che conta. 4/5

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