sabato 13 maggio 2017

La danza della formica (T. Cariello, 2015)

"La letteratura è il non scritto di cui lo scritto è un richiamo o, se vogliamo, un'ombra; [...] la letteratura è una mancanza perennemente rinnovata dalle parole; è desiderio di "un altro ancora", perché quello che c'è sulla pagina non basta, non può essere tutto. [...] La letteratura non è fatta di parole, ma di tutto il silenzio che certe parole scritte lasciano sospettare e inducono ad indagare". Questo è quanto scrive Nicola Gardini, nel suo bellissimo ed eccentrico: Lacuna. Saggio sul non detto (Einaudi, 2014). E a questo ho pensato, tra le altre cose, nel leggere il romanzo d'esordio di Tiziana Cariello, La danza della formica (Europa Edizioni, 2005).

Si tratta delle vicende d'una giovane giornalista palermitana, la quale viene incaricata da un settimanale cittadino di occuparsi di un'inchiesta molto delicata; un'inchiesta riguardante alcuni fenomeni di corruzione e abuso perpetrati da alcuni professori di una prestigiosa università di Nairobi, in Kenya, sulle loro studentesse (credo sia proprio il tema dei professori corrotti e immorali e, più in generale, il mondo dell'università ad aver attirato la mia iniziale curiosità). Cora, la protagonista del romanzo, accetta con entusiasmo l'incarico. Ciò le consentirà di fare un viaggio in Africa, che non è solo geografico, ma anche (soprattutto?) esistenziale.

La storia è raccontata bene, con descrizioni molto realistiche e dettagliate. Alcuni temi, poi, hanno certamente richiesto un'approfondita documentazione: la medicina legale, la biologia dei felini, ecc. Eppure, a dispetto della precisione, sembra sempre che manchi qualcosa. È una narrazione che abbonda di omissioni più o meno esplicite. La poetica del quotidiano, che Tiziana Cariello evoca, pare in realtà celare questioni più profonde, allusioni nascoste, un altrove che può essere scabroso, o più intimo, e che non trascura nemmeno il dato sociologico. Proprio queste lacune sono alla base del "desiderio" che accompagna il lettore nel seguire le vicende del libro, e ne costituiscono un innegabile pregio.

Bello l'espediente di tentare una narrazione polifonica, che affolla la lettura di prospettive anche molto diverse tra loro, le quali danno vita ad un intreccio che le cuce in modo efficace. Prevale, comunque, il female gaze, quello sguardo "al femminile", che permette al romanzo di emanciparsi da certa stereotipata letteratura d'inchiesta (molto evidente, ad esempio, è l'affetto dedicato a tutte le figure femminili del romanzo). Lo stile, inoltre, sembra rimandare a certe voci della letteratura del Nord Europa. Una sorta di paradosso, considerato che il romanzo comincia a Palermo (per una volta, non raccontata con le solite, stanche categorie meridionalistiche) e si conclude a Nairobi. 

Potrei riassumere l'idea che mi sono fatto della scrittura di Tiziana Cariello, definendola una "letteratura esperienziale", in cui sono, per l'appunto, più importanti i vissuti, piuttosto che l'indagine in sé. Quest'ultima sembra più che altro un pretesto per il viaggio esotico dentro e fuori la protagonista. Il titolo stesso, che credo (l'autrice non lo spiega) rimandi al fenomeno etologico della spirale della morte delle formiche, è la minaccia di una tragica catastrofe che nel romanzo avrà degli esiti imprevisti.   

Le vicende potevano tranquillamente svolgersi anche in Italia, e temo che proprio dall'Italia partano alcune riflessioni "sociologiche" dell'autrice. La verosimiglianza del racconto può anche avere qualche punto di cedimento nella traslazione all'interno della cornice africana; ma - come scrive ancora Gardini - in letteratura "il realismo (...) non è altro che un patto di mutuo soccorso e di reciproca legittimazione tra gli elementi portanti di uno stesso racconto; (...) il realismo è un sistema di "rapporti funzionali" tra le cose scritte, e non un insieme di dati la cui "realtà" trovi riscontro al di fuori del testo". L'importante - egli continua - è che il lettore sia "tirato" dentro il mondo del testo. "Gli eventi e i personaggi, infatti, per quanto capaci di divertire e affascinare, servono a esprimere idee, o - se si preferisce - ipotesi di mondo o, ancor meglio, (...) una "mentalità"". Tiziana Cariello c'è riuscita. E se la prima creazione del lettore, nell'atto di leggere, è un autoritratto (ibidem), nel mio caso questo autoritratto è stato assai utile.

martedì 2 maggio 2017

Klip (M. Milos, 2012)

Klip (2012), di Maja Milos, è il film più desolato, deprimente e senza uscita sulla gioventù contemporanea che mi sia capitato di vedere. Un ritratto generazionale, che assomiglia tragicamente a un mattatoio sociale. 

Un inizio abbastanza scioccante, e siamo subito immersi in una sorta di dimensione parallela, fatta di scatti e riprese con gli smartphone, che documentano la vita di alcune liceali serbe (una, in particolare), in una Belgrado divisa tra gli eccessi delle feste dei millenials e le macerie (non solo fisiche) di una guerra ancora dolente.

La storia dell'esperienza giovanile, si sa, almeno a partire dalla seconda metà del Novecento, è anche storia di eccessi, di musica, droga e sesso (si legga, per una bella ricostruzione delle subculture giovanili spettacolari tra il 1950 e il 2000, il libro di Pedretti e Vivan, Dalla Lambretta allo skateboard, Unicopli). Ciò che, tuttavia, denuncia il film della Milos è l'assenza, qui, di una narrazione che faccia da pretesto all'eccesso, il nichilismo della fine della storia, e - aggiungo io - anche la mancanza di un'estetica del nulla (di cui, peraltro, esistono fulgidi esempi). Il film, infatti, non cela bruttezze d'ogni tipo, anche a costo di negarsi in quanto cinema, di tralasciare la mediazione "poetica" e farsi etnografia (cfr. la Fig. 1).      


Fig. 1 - Post-estetica
Etica ed estetica sono due aspetti spesso complementari nella tradizione classica, e qui ritornano. Al brutto rappresentato sullo schermo si accompagna l'a-moralità (non l'im-moralità, però) dei personaggi, che agiscono senza pretesti, senza moventi. L'amore e la violenza sono senza segno. I protagonisti non sembra che siano in grado di compiere delle scelte, sembrano paralizzati in un eterno presente, e incapaci di sopportare la vita anche nelle cose più piccole (ma ci sono anche quelle grandissime). La regia non formula ipotesi esplicite, pur nondimeno sembra delinearsi una diagnosi impietosa della ristrutturazione neocapitalista della Serbia del dopoguerra. Di qui, come ci ha insegnato il vecchio Durkheim, la deriva anomica degli individui e (quasi) il loro "suicidio" sociale. 


Fig. 2 - Compulsioni

E l'amour? L'amore è sesso (con alcune sequenze molto esplicite nel film), che viene ripetuto compulsivamente, mimando l'estetica delle porno cam, e agito senza un motivo preciso, o come esito dell'uso di sostanze psicoattive. In una sequenza molto significativa, un giovane continua a leggere le notifiche del suo telefonino, mentre una delle protagoniste gli pratica una fellatio (cfr. la Fig. 2). Nessuno dei due sembra essere presente a se stesso/a. Insomma, il sesso non solo non è amore, ma prescinde dall'altro, è sia un rituale sia uno specchiarsi (ovviamente, anche sullo schermo dello smartphone [cfr. la Fig. 3]). E se - come diceva Lacan - non esiste "rapporto" sessuale, qui non esiste però neanche il desiderio.


Fig. 3 - Riflessi su specchi

I corpi sono il centro indiscusso del film. Ed è perché i corpi, nella società contemporanea, dopo la fine dei movimenti, sono diventati una frontiera di resistenza. Sono testi che provano ad articolare una qualche forma di pratica rivoluzionaria, pur essendo minacciati da un biopotere che - come voleva Foucault - ne vorrebbe disciplinare gli ultimi spasmi e le residue energie. Nel film, i corpi dei giovani si mostrano, si fotografano, si filmano continuamente, ma la guerra sembra perduta, mentre i corpi dei padri letteralmente muoiono. Gli adulti, soprattutto gli insegnanti, sembrano zombie, svuotati (incapaci?) di qualsiasi responsabilità nei confronti degli adolescenti.  

Un finale ambiguo non sembra concedere molte speranze allo spettatore e, soprattutto, agli adulti di domani. Le ragazze studiano, non a caso, pedagogia. Quasi una distopia. 3/5

Il trailer del film