venerdì 27 luglio 2018

L'amore secondo Isabelle (Un beau soleil intérieur, C. Denis, 2017)

«Innamorarsi non significa sapere di cosa si ha bisogno, o che cosa si vuole, e mettersi perciò in cerca di qualcuno che abbia quel requisito: il "miracolo" dell'amore è che si scopre di che cosa si ha bisogno soltanto quando lo si trova», così Slavoj Žižek definisce l'evento in amore, come declinazione specifica dell'"evento", più in generale, nella cultura occidentale (Žižek, Evento, trad. it. Utet, 2014).

Isabelle, la protagonista di Un beau soleil intérieur (2017) di Claire Denis, sceglie dunque la strada sbagliata per trovare l'amore: lo cerca. Il film è un resoconto piuttosto riuscito del nomadismo affettivo e sentimentale che caratterizza i cinquantenni di oggi alla ricerca del fantasma dell'amore romantico. Un nomadismo che riesce perfino a muoversi dentro e oltre i confini tra gli strati (la classe, il ceto, il colore della pelle) e gli "ambienti" sociali (a Isabelle viene esplicitamente consigliato dagli amici di frequentare persone del suo stesso milieu). In questo senso, la protagonista si fa testimone d'un cambiamento radicale avvenuto nella concezione moderna dell'amore, il quale "ci raccomanda di seguire i dettami del cuore, non del milieu sociale" (Eva Illouz, "Perché l'amore fa soffrire", trad. it. il Mulino, 2015).  

Le relazioni impossibili si susseguono, alcune durano lo spazio di una notte, e Parigi - da sempre la location romantica per eccellenza - sembra rimanere timidamente nell'ombra, facendo ogni tanto capolino con la cima della tour Eiffel. Nell'ombra si trova anche la condizione esistenziale di Isabelle, che soffre per amore. Per Eva Illouz, oggi si soffre di più per amore, perché l'individuo contemporaneo è spinto continuamente a compiere delle scelte in assenza di cornici e norme culturali rigide. Queste ultime, un tempo, orientavano e ordinavano le preferenze sentimentali su basi morali e di eccellenza del carattere, trascendendo l'interesse individuale e sopratutto il desiderio. Oggi, invece, sono l'idea di autenticità del sé e il desiderio a determinare le scelte. Ma tutto ciò ha un costo: è rischioso, rende precarie le relazioni, esposte a quella che i teorici delle decisioni (ad esempio, J. Elster, G. Becker) chiamano la "trappola dei massimi locali", bisogna sostenerne individualmente le responsabilità.

Su questa "ecologia" e "architettura" della decisione, il mutamento sociale ha impresso una svolta decisiva. Illouz ci dice che le emozioni nella modernità operano in continuità con la logica del capitalismo: gli attori sociali devono accumulare capitale sessuale, per sfruttare il potenziamento di status che ne deriva. Ciò determina un "mercato" degli incontri, in cui domina la logica individualistica, figlia della rivoluzione moderna. Il bisogno di affermazione individuale è dunque il motivo di alcune "patologie" contemporanee esiziali per i rapporti di coppia quali il narcisismo, la tirannia della bellezza e della moda, l'incapacità di scegliere, la fobia da impegno, l'analfabetismo emotivo diffuso. Questa accumulazione "capitalistica" di partner è oggetto di un mirabile racconto, Il simposio, tratto da Gli Amori ridicoli di Kundera (trad. it. Adelphi, 1988). In un passaggio chiave, il personaggio del primario dice al dott. Havel: "L'erotismo non è soltanto desiderio di un corpo, ma in egual misura anche desiderio di stima. Il partner che avete conquistato, che vi desidera e vi ama, rappresenta il vostro specchio, la misura di ciò che siete e di ciò che valete. [...] Se andate a letto con tutti, cesserete di credere che una cosa tanto banale come fare l'amore possa avere per voi un autentico valore. Per cui, il significato vero lo andrete a cercare proprio dalla parte opposta".

Isabelle è dentro il Normale caos dell'amore (Ulrich ed Elisabeth Beck, trad. it. Bollati Boringhieri, 1996): il caos generato da un mondo in rapido cambiamento, che a fronte di una libertà illimitata impone agli individui la responsabilità di scelte continue e difficili, ed esaspera la tensione tra realizzazione personale (Isabelle è una pittrice) e impegno per gli altri (il compagno, la famiglia), tra sicurezza e avventura (E. Perel, "L'intelligenza erotica", trad. it. Ponte delle Grazie, 2013). La "fame d'amore" è un sintomo, un sintomo che è legato all'avvento di relazioni "pure" tra persone; relazioni, cioè, non più convenzionali, non imposte dalla struttura sociale bensì volute: «le persone si sposano per amore e per amore divorziano. Sperano, si pentono e ci riprovano in un ciclo pressoché infinito» (Giddens, La trasformazione dell'intimità, trad. it. il Mulino, 1995). Nel provarci, forse, si vuole anche negare il tempo che passa, col rischio di cadere nel ridicolo: nel film, Isabelle si veste come una ventenne e spesso sembra essere inadeguata nei vari contesti in cui si muove.

Il catalogo di uomini in cerca d'autore che Isabelle incontra sul suo cammino è degno d'un trattato di sociologia (o psicopatologia?) contemporanea. Il registro utilizzato dalla Denis è ambivalente, a volte simpatizza (è il caso dell'attore impersonato da Nicolas Duvauchelle, il quale sembra tormentato dalla "fobia dell'impegno" di cui parla Eva Illouz), altre volte disprezza con forza (è il caso di Vincent, il banchiere, interpretato da Xavier Beauvois).

Love is the answer si cantava negli anni Sessanta. Oggi è sempre più vero, perché di fronte alla complessità del mondo l'amore sembra un'ultima ragione di vita. Il problema è che è una risposta disperata, una sorta di paradosso. Del resto, se lo cerchi l'amore non arriva, come ammonisce Žižek. Esso è evento. Quando poi lo trovi, scopri che non dura. Questo è ciò che capita a Isabelle (una Julilette Binoche mai così brava, nudissima e bella), e il finale molto insolito - coi titoli di coda ancora dentro il film - lo sottolinea. Le risposte (anche quelle morali) vengono dal dialogo, dall'"agire comunicativo" direbbe Habermas. In assenza di certezze, non resta che dialogare in attesa di un evento che proponga una nuova configurazione delle cose. Un po' come il sole (evocato nel titolo originale) che penetra in un posto buio e gli fa assumere una nuova forma.

Assolutamente vietato ai minori di 45 anni.

Il trailer del film 

sabato 16 giugno 2018

N.P. Il segreto (S. Agosti, 1971)

Degli "esodati" avete tutti un po' sentito parlare. Invece, è probabile che non abbiate mai sentito parlare dei "sussidiati". Se ne parla in questo film incredibilmente profetico di Silvano Agosti: N.P. Il segreto (1971). La proposta di un industriale illuminato di liberare dal lavoro le persone e garantire risorse e cibo illimitato viene bloccata e sovvertita da una sorta di colpo di stato di tipo paramilitare. L'industriale, dopo essere stato in qualche modo "ricondizionato", conoscerà lo spaventoso destino riservato al suo disegno utopico, oramai sabotato. Girato fra architetture metafisiche e futuribili, con una ipnotica colonna sonora firmata da Nicola Piovani, il film di Agosti, figlio del dibattito pubblico post-sessantottesco, non è incredibilmente invecchiato. Il ragionamento sul ruolo della tecnica nella società contemporanea, inoltre, non è per nulla banale. Acquistato dalla RAI, il film non è stato mai trasmesso in televisione... Capolavoro praticamente invisibile del cinema (fanta)politico degli anni Settanta.

mercoledì 13 giugno 2018

L'estate di Camerina (M. Tomassoli, 2012)

L'estate di Camerina è una raccolta di nove bellissimi racconti, scritti da Mauro Tomassoli: "La festa", "I due amici", "La pallina da ping pong", "La partita di tennis", "Sputi", "Il professore martire", "Il sorpasso difficile", "La sparizione della pistola", "L'estate di Camerina". 

Ogni racconto condivide con gli altri una stessa condizione: la mancata risoluzione della storia. È il resoconto di un alibi, il documento d'una debolezza, la denuncia di una paralisi, che sembra rimandare direttamente alla poetica Joyciana. L'azione è sempre fermata un passo prima di compiersi. In un modo o nell'altro, spetta al lettore decidere di compierla o farla compiere al protagonista di turno; gli spetta completare il quadro. Addirittura ne "La sparizione della pistola", gli viene chiesto di calarsi nei panni del detective. Il finale di questo racconto ricorda moltissimo l'ultima sequenza di Roulette Cinese di R.W. Fassbinder, oltre a portare alla memoria il Centodelitti di Giorgio Scerbanenco (Garzanti).

Tomassoli ci propone una piccola epistemologia del gesto, che trova una sponda affatto deserta nelle arti e nel cinema contemporanei. Un riferimento immediato potrebbe essere quello della ricerca operata dalla pittura impressionista sullo sguardo (cfr. Stoichita, Effetto Sherlock, il Saggiatote). Oppure si pensi all'Amleto di Laforgue, poi riletto da Carmelo Bene.

Alla riflessione sull'opacità, il pudore, l'impossibilità del gesto, specie se risolutorio, s'accompagna la dimestichezza con le lacune, le ellissi, le mancanze, che della letteratura sono vero e proprio elemento vitale (Gardini, Lacuna, Einaudi). Mauro Tomassoli sembra volerne definire la ricchissima tassonomia. La lacuna, poi, s'arriva quasi a toccare nello straordinario passaggio dell'ultimo racconto ("L'estate di Camerina"), in cui Adelaide comunica con Niki scrivendogli col dito sulla schiena, in una sorta d'esperimento di deprivazione sensoriale.

Il ritmo della prosa non manca mai. Si procede nella lettura senza alcuna fatica, ma allo stesso tempo avvertendo la fortissima tensione dialettica tra intenzione e gesto, che caratterizza ogni storia. Tutto funziona, però, perché c'è anche un ingrediente segreto nella formula narrativa di Tomassoli, che si arriva a scorgere, forse, solo alla fine. L'autore, infatti, è molto bravo a rendere familiari tutti i contesti del suo "discorso sul noumeno", tramite dialoghi, rituali, sfondi. Anzi, egli tratta, più precisamente, della familiarità perduta, della "nostalgia" (per qualche motivo, mi è spesso venuto in mente Cesare Pavese). In questo modo, il suo è un discorso che tematizza la topologia del/nell'intreccio, lo spazio (che spesso è proprio il responsabile della rinuncia alla responsabilità del gesto) e il tempo, che spesso allude al montaggio cinematografico. Entrambi aspetti definitori del concetto si nostalgia (Barbetta, La follia rivisitata, Mimesis). I racconti si aprono ("La festa") e si chiudono all'insegna d'una fortissima nostalgia, tra maturità e infanzia, come tra due parentesi o come tra i due lati d'un sipario.

A questo punto, sembra affiorare la soluzione, la terapia per il dolore del ritorno: esso va spostato all'infinito (l'eterno ritorno); bisogna impedire al gesto di compiersi, affinché si possa sempre pensare di tornare ad Itaca, ché nulla è perduto. Sembra, così, d'averla (già) vissuta quell'estate a Camerina, e non resta che riviverla, senza naturalmente mai concluderla. È la legge del desiderio, che rende questa bellissima raccolta un piacere raro.

Mauro Tomassoli, L'estate di Camerina, Roma, Avagliano, 2012.

venerdì 8 giugno 2018

Il seno (P. Roth, 1972)

Questo Roth me lo ero perso. Un Roth minore, forse. Tuttavia, che segna la nascita del leggendario prof. Kepesh. Un evento, dunque. Divertente ma profondo, surreale e ridicolo ("come il lato di ogni catastrofe"), colto e trash. Impossibile, ovviamente, non pensare alla tetta gigante di quell'altro grande erede americano della tradizione ebraica: il Woody Allen di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso.... Il riferimento forte del racconto, comunque, è Kafka. Forse non si dovrebbero leggere certi "cattivi" maestri. "E lui insegna questa roba? All'università?", si chiede il padre di Kepesh. Forse è tutto nella testa, ma la testa non è tutto? "State attenti ai desideri più folli; potrebbero diventare realtà", ci avverte Roth. Si legge in una sera. Una delizia!

Philip Roth, Il seno, trad. it. Einaudi, Torino.  

sabato 17 marzo 2018

Il filo nascosto (Phantom Thread, P.T. Anderson, 2017)

La forma de Il filo nascosto, l'ultimo film di Paul Thomas Anderson, si nota e ammira subito: è pressoché perfetta. Perfetta come uno dei magnifici vestiti disegnati e realizzati dal sarto Reynolds Woodcock, interpretato da Daniel Day-Lewis; vestiti destinati a regnanti e membri della classe affluente europea. Ci si immerge, così, in un film classico e di classe, come accade già da un po' di tempo coi lavori del regista statunitense.

Poi, però, guardando meglio, qualcosa comincia a non quadrare. Quando meno te l'aspetti, il vestito si strappa (non solo metaforicamente). La sceneggiatura prima s'increspa, e poi si agita. Accade qualcosa di radicalmente imprevisto, che spiazza anche in modo violento, pur all'interno d'una messa-in-scena impassibile (anche nel dolore) e di una confezione che continuano ad evocare altro. Lacune ed ellissi ci spostano improvvisamente verso nuovi registri e territori.

Tutto il film ha questo ritmo, che procede per traumi ed epifanie. È lento solo in superficie. Forma e calligrafia sono ingannevoli come certi tessuti semplici ma pregiati. Siamo quasi dentro a un thriller. Lo svolgimento della narrazione ci riserva personaggi che si trasformano, cambiano maschera e ruolo, si scambiano le parti. Esattamente ciò che accade alle persone quando cambiano abito. C'è, ad esempio, un momento del film, quando il dottor Hardy va a far visita per la prima volta al protagonista, in cui possiamo vedere perfettamente il punto in cui le traiettorie delle protagoniste femminili del film (Cyril, la sorella di Reynolds, e la cameriera Alma Elson) s'intersecano e coincidono (esse dicono le stesse cose, facendosi eco reciprocamente) per poi divergere, ma con traiettorie opposte. Sembrano i movimenti dell'ago e del filo che va e viene, entra ed esce da un'altra parte.

Reynolds è un uomo algido. Non spoglia le donne, le veste. Sembra, in apparenza, non potersi concedere certe "distrazioni". Vive in un mondo di regole, che coincidono con le trame perfette dei tessuti che adopera. Egli stesso, tuttavia, nasconde in ogni vestito un dettaglio, una scritta, un messaggio - un mistero forse - che lo rendono unico. Nella vita del sarto, questo mistero si palesa nell'enigmatica figura di Alma. Una donna semplice, forse ordinaria nelle fattezze, ma che cela insospettabili potenzialità (come indossatrice, ad esempio), nonché una forza ad una vitalità in alcuni casi sinistre, le quali finiranno con l'introdurre il caos ed il perturbante nella meccanica perfetta del mondo di Reynolds. La dialettica diventerà quella tra vittima e carnefice, ma non in un unico senso, bensì in una complessa relazione di complicità che sembra volere esplorare, con un'eleganza straordinaria, l'esercizio del potere all'interno di una coppia. 

Ad un livello macrosociologico, invece, Reynolds e Alma riproducono la dinamica tra distinzione e imitazione, messa in evidenza dalla riflessione classica di Georg Simmel sulla moda. Qui, tuttavia, ritorna la struttura a clessidra già emersa nelle traiettorie delle due protagoniste femminili del film: Alma e Cyril. Il classico effetto trickle-down si rovescia. Nulla sembra mai scontato. Il filo che ha bucato il tessuto può rispuntare improvvisamente da un'altra parte. Quel filo è anche il tempo, che irrompe sulla scena nella sequenza della riparazione del vestito da sposa della principessa del Belgio. Il tempo che cambia cose e persone, si nasconde e ritorna, imponendoci una realtà a geometrie variabili ed un finale ambiguo.

La macchina da presa registra la realtà di questo mondo in modo discreto. Le inquadrature sono spesso eccentriche (fuori centro), oblique, giocate sulla profondità di campo delle ottiche. È come se sbirciassimo la vita della coppia da un punto d'osservazione imperfetto, che mette però in discussione la labile soglia tra pubblico e privato, rappresentazione e retroscena. Ci sono molte porte. Noi è come se ci trovassimo sempre in mezzo. Come avviene nel trambusto della scelta d'un abito, per un'occasione particolare, ci troviamo a metà strada tra l'armadio e la scena; scena di cui il vestito è un elemento cruciale. Forse, in questa regione liminale, ci viene anche chiesto di decidere da che parte stare.

Dopo Vizio di forma (2014), Paul Thomas Anderson gira un altro grande film che si va ad aggiungere alla sua piccola galleria di classici contemporanei, proponendoci un lavoro d'alta scuola registica. Un lavoro in cui tutti gli attori recitano in modo impeccabile, con una menzione particolare riservata alla semi-sconosciuta (almeno per me) e sorprendente Vicky Krieps, nel ruolo di Alma Elson. Giustamente candidato a numerosi premi. Mai, come in questo caso, il libro non va giudicato dalla copertina e va letto. 4/5

La video-recensione de Il filo nascosto. 

PS. Se vi trovate a Caltanissetta, nei prossimi giorni, e v'incuriosisce il mondo dell'alta sartoria, fate un salto alla mostra: Magnificenza e Trame d'Arte, a Palazzo Moncada, fino al 22 Aprile 2018. Magari dopo aver visto il film al cinema...


   

domenica 21 gennaio 2018

Hounds of Love (B. Young, 2016)

Michel Foucault, in Microfisica del potere, scriveva che: “quel che fa sì che il potere regga […] è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi”. È una riflessione straordinaria, che in qualche maniera ha cambiato il modo di concepire il potere nell'ambito delle scienze sociali. 

Hounds of love (trad. it. Segugi d'amore) (2016) di Ben Young è un film davvero sconvolgente, che pare voler indagare a fondo proprio questa idea foucaultiana di potere, provando a classificarne le varietà e a perimetrarne i confini. E, infatti, è letteralmente uno studio di/sulla frontiera.

Anzitutto, la frontiera del "dicibile" al cinema. La trama del film poteva essere comodamente sviluppata in chiave splatter o torture porn. Qui, invece, è un trionfo di ellissi, che vengono utilizzate in tutte le declinazioni possibili. In una sequenza, in particolare, grazie all'intervento della colonna sonora, con esiti sublimi.

La seconda frontiera è quella che s'intravede tra scena e retroscena, apparire ed essere. Scena e retroscena alludono a un "dentro" e a un "fuori", ad un "interno" e ad un "esterno", la cui soglia, qui, è la porta dell'appartamento della coppia di "segugi", oltre la quale si consuma una violenza spaventosa.

Il potere, all'interno della casa, è un potere primario, elementare; mentre fuori il potere è "politico", ben stratificato, sociologicamente definito e - se possibile - ancora più esplosivo. Nella dialettica che ne scaturisce, s'inserisce anche il tema del doppio (ma anche dell'ambiguità), moltiplicato su più livelli: il livello intrapsichico, quello personale, quello relazionale, e poi quello micro e macro-sociale. Il senso di vertigine viene così dolorosamente reiterato.

Due film di Pasolini possono essere accostati a questo lavoro di Ben Young. Il primo è Uccellacci, uccellini (1966), il film in cui Pasolini riflette sulla dialettica servo-padrone e sull'irriducibilità e ricorsività delle asimmetrie di potere: chi comanda dovrà sempre rendere conto a qualcuno che ha più potere di lui/lei; un po' il destino del segugio, appunto (le prede del segugio, peraltro, non gli appartengono mai). Il secondo film, ovviamente, è Salò (1975), il film forse più teorico di Pasolini su sesso e potere.

Ciò che fa sopportare tutto ciò che avviene dentro e fuori la casa è, tuttavia, una morale. Il film ci dice (forse ci grida) che alla brutalità del potere come Macht si può sempre opporre l'altrettanto efficace potere che deriva dall'Herrschaft; alla violenza può fare da contraltare, in modo altrettanto forte, la cultura o l'intelligenza, o l'astuzia. Un tema fondamentale, già presente, del resto, nella letteratura classica.

E letterari sono molti spunti del film, a cominciare dalle esplicite allusioni Il buio oltre la siepe (il cui titolo originale è, significativamente, To Kill a Mockingbird) e Cime tempestose di Emily Brontë, in cui ricorrono le frontiere, i confini, le comunità chiuse e le passioni distruttive. Ma anche le strutture formali elicoidali e a scatola.

Con un incipit da ricordare, una calligrafia che s'adatta mirabilmente alla claustrofobia degli ambienti, interessantissime soluzioni stilistiche e una recitazione straordinariamente credibile, Hounds of love è un film che riesce a turbare anche gli spettatori più scafati ed esigenti. Un film da non sottovalutare. Un film che fa coraggiosamente luce nel buio... oltre la siepe. 4/5

Il trailer del film

lunedì 15 gennaio 2018

L'amore e la violenza (Baustelle, 2016)

L'amore e la violenza, l'ultimo disco dei Baustelle, è un lavoro di ricerca e (ri)scrittura notevolissimo. Gramscianamente "organico", riesce a miscelare, senza scarti, musica alta e musica bassa, pop e sperimentazione, vecchio e nuovo, in una problematizzante, disperata sintesi postmoderna. Parole e sonorità spaziano da Nicola Di Bari ai Goblins di Claudio Simonetti, da Viola Valentino a Rick Wakeman, da Don Backy a John Lennon, da Franco Battiato al maestro Riz Ortolani, da Sandokan degli Oliver Onions a Fabrizio De André, solo per citarne alcuni. Viene sistematicamente evitata certa standardizzazione imperante nella pop music contemporanea, e proposte oblique progressioni armoniche e versi fuori squadra, come in un processo evolutivo mutante. Mi ha evocato il languore di quei lividi tramonti urbani, che disegnano le ombre e le lacune delle nostre periferie. Per molto meno, nel caso dei Talking Heads, si parlò di capolavoro. "Complimentazioni", e molte stelle... al collasso. Sublime.

La Chatte à deux têtes (J. Nolot, 2002)

Ma che bello questo film! Aristotelico nella forma, a metà fra Nietzsche, Cioran e Foucault nei contenuti. Sociologicamente finissimo, e miracolosamente in equilibrio su un terreno in cui è facile cadere e farsi male. Cinema d'alta scuola, e tradizione francese d'altri tempi.

Ida (P. Pawlikowski, 2013)

Film notevolissimo di Paweł Pawlikowski. Geometrico, algido, pulitissimo. Straordinaria la composizione dell'immagine, in cui le figure umane sono sempre periferiche, e come oppresse, "schiacciate" dagli oggetti, dall'ambiente, dal resto del mondo; così come avviene nella vita dei protagonisti. Ogni fotogramma potrebbe essere ritagliato per un'antologia della settima arte. Su Netflix.

Rest (C. Gainsbourg, 2017)

Ascoltare il cinema che s'ibrida con la popular music è quasi sempre un'esperienza interessante. Non fa eccezione questo nuovo lavoro di Charlotte Gainsbourg, intitolato Rest, in cui alcuni stilemi della musica anni Settanta vengono riletti e digeriti con l'algoritmica sensibilità degli anni dieci. Si sente molto la produzione targata Daft Punk, che però si combina in modo sorprendentemente efficace con la voce della Gainsbourg, la quale, seppur connotata da una consistenza fantasmatica (e non è un limite), riesce a trasmettere buone vibrazioni e una certa originale inquietudine. Dietro le quinte, irriconoscibile, c'è anche il vecchio Paul McCartney, la cui Songbird in a Cage viene qui sezionata e ricucita al sintetizzatore come una sorta di Frankenstein post-vintage. L'impressione complessiva è di un lavoro molto ben concepito, realizzato, e interpretato. Ascoltare per credere.

lunedì 8 gennaio 2018

Poiché ero carne (E. Dahlberg, 1964)

Sul modello dell'antologia personale, un romanzo coltissimo e viscerale, sacro e spietato, epico e spaventoso. Infinite le citazioni e gli insegnamenti per un'esistenza cinica. CA-PO-LA-VO-RO-!

Edward Dahlberg, Poiché ero carne, trad. it. a cura di J. Rodolfo Wilcock, Adelphi, 1988.

sabato 6 gennaio 2018

Lanzarote (M. Houellebecq, 2000)

Un romanzo-reportage breve (indeciso tra l'uno e l'altro), ch'è anche un piccolo trattato si sociologia (politica, della religione, del turismo...). En passant, viene citato ironicamente persino Herbert Spencer. Politicamente scorretto, e abbastanza sconcio. Belle le descrizioni, corredate da immagini, dei paesaggi di Lanzarote. Manca, a mio avviso, un finale vero e proprio, e rimane piuttosto in superficie su certi temi. Tuttavia, una lettura niente affatto spiacevole.

Follia (P. McGrath, 1996)

In un paio di giorni, ho letteralmente divorato questo romanzo di Patrick McGrath: Follia. Praticamente impossibile abbandonarne le pagine: una droga. Un racconto intensissimo e costruito con grandissima abilità, una vicenda di passioni estreme su uno sfondo (sociale e naturale) descritto in modo magistrale. Un'occasione di lettura, secondo me, da non perdere; ma allo stesso tempo una forza da maneggiare con attenzione. Pare che ne abbiano tratto un film. Non credo sia stato facile, o addirittura possibile, rispettarlo fino in fondo. Certo, con Fassbinder dietro la macchina da presa...

giovedì 4 gennaio 2018

Coming apart (M.M. Ginsberg, 1969)


Joe, uno psichiatra tormentato ("spaventato", egli si definisce all'inizio del film), ossessionato da una precedente relazione, e dalla dubbia moralità, filma di nascosto i suoi rapporti con varie donne, in un appartamento di una non meglio precisata città americana.

Coming apart (1969) è un film quasi sperimentale di Milton Moses Ginsberg, che ha una trama piuttosto evenemenziale, costituita da tutta una serie di incontri senza un apparente filo conduttore, improntata allo stile del cinéma vérité, in voga negli anni Sessanta. Potrebbe assomigliare allo schedario d'un poliziotto, affollato da figure molto variegate. In comune con le collezioni di schede-referto, vi è la tensione epistemologica dell'inchiesta, il complicato ma ineludibile rapporto con la realtà. 

Ciò che rende il film degno di nota (e di una visione) è la messa in scena, il ruolo della macchina da presa (e dunque il punto di vista proposto allo spettatore), e gli aspetti tecnici in generale: il montaggio sincopato, sporco, coi ritagli di pellicola messi in evidenza; la fotografia in bianco e nero, granulare, lo-fi; il sonoro: interrotto, disturbato da frequenti click, feedback, rumori di fondo. Anche i discorsi e i ragionamenti sono afasici, tautologici, talora ridotti a espressioni onomatopeiche o primitive.   

L'idea che ispira tutto il film è quella di far coincidere il materiale amatoriale girato da Joe con il film stesso, conferendogli una efficace illusione di autenticità, di (im)mediatezza, d'improvvisazione. Molto interessante è il punto di vista scelto dal regista, il quale riprende gran parte dell'azione con una camera fissa, rivolta in direzione d'un grande specchio appeso dietro un divano. 

Ciò significa che i personaggi vengono sistematicamente duplicati, sdoppiati. Se ne vede il corpo, ma anche il riflesso, suggerendo metaforicamente il collasso della distanza tra scena e retroscena, tra maschera e volto, tra pubblico e privato. 

Come scriveva J.L. Borges, "gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini". E qui non manca nessuno di questi elementi. Tutto però passa da una tecnologia che vorrebbe ambire all'autenticità documentaristica, ma è condannata al fallimento. È infedele. Come il promiscuo protagonista. 

Registratori, microfoni, cavi, macchine fotografiche, pellicole dominano la scena. Il bel finale neoluddista rompe l'incantesimo e la tensione, e lo spettatore può ritornare alle finzioni della vita quotidiana, dopo uno sforzo non indifferente. La sensazione è di aver fatto un bagno nel rumore. Un rumore che si nota solo quando è finito. Ma è un paradosso: la verità esposta, infatti, non può che essere "rumorosa"; tolto il rumore, tuttavia, il noumeno (e il senso) non c'è. E anche il corpo nudo, nudo non lo è mai. 

Coming apart è un film interessante, abbastanza hippie, ma anche premonitore, recitato molto bene (soprattutto da Rip Torn), in quanto apparentemente non-recitato; adatto a chi vuole uscire dalla comodità di certe visioni stereotipate. Se lo spirito è questo, il film non delude e può regalare più d'una (buona) vibrazione. 3/5