domenica 21 gennaio 2018

Hounds of Love (B. Young, 2016)

Michel Foucault, in Microfisica del potere, scriveva che: “quel che fa sì che il potere regga […] è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi”. È una riflessione straordinaria, che in qualche maniera ha cambiato il modo di concepire il potere nell'ambito delle scienze sociali. 

Hounds of love (trad. it. Segugi d'amore) (2016) di Ben Young è un film davvero sconvolgente, che pare voler indagare a fondo proprio questa idea foucaultiana di potere, provando a classificarne le varietà e a perimetrarne i confini. E, infatti, è letteralmente uno studio di/sulla frontiera.

Anzitutto, la frontiera del "dicibile" al cinema. La trama del film poteva essere comodamente sviluppata in chiave splatter o torture porn. Qui, invece, è un trionfo di ellissi, che vengono utilizzate in tutte le declinazioni possibili. In una sequenza, in particolare, grazie all'intervento della colonna sonora, con esiti sublimi.

La seconda frontiera è quella che s'intravede tra scena e retroscena, apparire ed essere. Scena e retroscena alludono a un "dentro" e a un "fuori", ad un "interno" e ad un "esterno", la cui soglia, qui, è la porta dell'appartamento della coppia di "segugi", oltre la quale si consuma una violenza spaventosa.

Il potere, all'interno della casa, è un potere primario, elementare; mentre fuori il potere è "politico", ben stratificato, sociologicamente definito e - se possibile - ancora più esplosivo. Nella dialettica che ne scaturisce, s'inserisce anche il tema del doppio (ma anche dell'ambiguità), moltiplicato su più livelli: il livello intrapsichico, quello personale, quello relazionale, e poi quello micro e macro-sociale. Il senso di vertigine viene così dolorosamente reiterato.

Due film di Pasolini possono essere accostati a questo lavoro di Ben Young. Il primo è Uccellacci, uccellini (1966), il film in cui Pasolini riflette sulla dialettica servo-padrone e sull'irriducibilità e ricorsività delle asimmetrie di potere: chi comanda dovrà sempre rendere conto a qualcuno che ha più potere di lui/lei; un po' il destino del segugio, appunto (le prede del segugio, peraltro, non gli appartengono mai). Il secondo film, ovviamente, è Salò (1975), il film forse più teorico di Pasolini su sesso e potere.

Ciò che fa sopportare tutto ciò che avviene dentro e fuori la casa è, tuttavia, una morale. Il film ci dice (forse ci grida) che alla brutalità del potere come Macht si può sempre opporre l'altrettanto efficace potere che deriva dall'Herrschaft; alla violenza può fare da contraltare, in modo altrettanto forte, la cultura o l'intelligenza, o l'astuzia. Un tema fondamentale, già presente, del resto, nella letteratura classica.

E letterari sono molti spunti del film, a cominciare dalle esplicite allusioni Il buio oltre la siepe (il cui titolo originale è, significativamente, To Kill a Mockingbird) e Cime tempestose di Emily Brontë, in cui ricorrono le frontiere, i confini, le comunità chiuse e le passioni distruttive. Ma anche le strutture formali elicoidali e a scatola.

Con un incipit da ricordare, una calligrafia che s'adatta mirabilmente alla claustrofobia degli ambienti, interessantissime soluzioni stilistiche e una recitazione straordinariamente credibile, Hounds of love è un film che riesce a turbare anche gli spettatori più scafati ed esigenti. Un film da non sottovalutare. Un film che fa coraggiosamente luce nel buio... oltre la siepe. 4/5

Il trailer del film

lunedì 15 gennaio 2018

L'amore e la violenza (Baustelle, 2016)

L'amore e la violenza, l'ultimo disco dei Baustelle, è un lavoro di ricerca e (ri)scrittura notevolissimo. Gramscianamente "organico", riesce a miscelare, senza scarti, musica alta e musica bassa, pop e sperimentazione, vecchio e nuovo, in una problematizzante, disperata sintesi postmoderna. Parole e sonorità spaziano da Nicola Di Bari ai Goblins di Claudio Simonetti, da Viola Valentino a Rick Wakeman, da Don Backy a John Lennon, da Franco Battiato al maestro Riz Ortolani, da Sandokan degli Oliver Onions a Fabrizio De André, solo per citarne alcuni. Viene sistematicamente evitata certa standardizzazione imperante nella pop music contemporanea, e proposte oblique progressioni armoniche e versi fuori squadra, come in un processo evolutivo mutante. Mi ha evocato il languore di quei lividi tramonti urbani, che disegnano le ombre e le lacune delle nostre periferie. Per molto meno, nel caso dei Talking Heads, si parlò di capolavoro. "Complimentazioni", e molte stelle... al collasso. Sublime.

La Chatte à deux têtes (J. Nolot, 2002)

Ma che bello questo film! Aristotelico nella forma, a metà fra Nietzsche, Cioran e Foucault nei contenuti. Sociologicamente finissimo, e miracolosamente in equilibrio su un terreno in cui è facile cadere e farsi male. Cinema d'alta scuola, e tradizione francese d'altri tempi.

Ida (P. Pawlikowski, 2013)

Film notevolissimo di Paweł Pawlikowski. Geometrico, algido, pulitissimo. Straordinaria la composizione dell'immagine, in cui le figure umane sono sempre periferiche, e come oppresse, "schiacciate" dagli oggetti, dall'ambiente, dal resto del mondo; così come avviene nella vita dei protagonisti. Ogni fotogramma potrebbe essere ritagliato per un'antologia della settima arte. Su Netflix.

Rest (C. Gainsbourg, 2017)

Ascoltare il cinema che s'ibrida con la popular music è quasi sempre un'esperienza interessante. Non fa eccezione questo nuovo lavoro di Charlotte Gainsbourg, intitolato Rest, in cui alcuni stilemi della musica anni Settanta vengono riletti e digeriti con l'algoritmica sensibilità degli anni dieci. Si sente molto la produzione targata Daft Punk, che però si combina in modo sorprendentemente efficace con la voce della Gainsbourg, la quale, seppur connotata da una consistenza fantasmatica (e non è un limite), riesce a trasmettere buone vibrazioni e una certa originale inquietudine. Dietro le quinte, irriconoscibile, c'è anche il vecchio Paul McCartney, la cui Songbird in a Cage viene qui sezionata e ricucita al sintetizzatore come una sorta di Frankenstein post-vintage. L'impressione complessiva è di un lavoro molto ben concepito, realizzato, e interpretato. Ascoltare per credere.

lunedì 8 gennaio 2018

Poiché ero carne (E. Dahlberg, 1964)

Sul modello dell'antologia personale, un romanzo coltissimo e viscerale, sacro e spietato, epico e spaventoso. Infinite le citazioni e gli insegnamenti per un'esistenza cinica. CA-PO-LA-VO-RO-!

Edward Dahlberg, Poiché ero carne, trad. it. a cura di J. Rodolfo Wilcock, Adelphi, 1988.

sabato 6 gennaio 2018

Lanzarote (M. Houellebecq, 2000)

Un romanzo-reportage breve (indeciso tra l'uno e l'altro), ch'è anche un piccolo trattato si sociologia (politica, della religione, del turismo...). En passant, viene citato ironicamente persino Herbert Spencer. Politicamente scorretto, e abbastanza sconcio. Belle le descrizioni, corredate da immagini, dei paesaggi di Lanzarote. Manca, a mio avviso, un finale vero e proprio, e rimane piuttosto in superficie su certi temi. Tuttavia, una lettura niente affatto spiacevole.

Follia (P. McGrath, 1996)

In un paio di giorni, ho letteralmente divorato questo romanzo di Patrick McGrath: Follia. Praticamente impossibile abbandonarne le pagine: una droga. Un racconto intensissimo e costruito con grandissima abilità, una vicenda di passioni estreme su uno sfondo (sociale e naturale) descritto in modo magistrale. Un'occasione di lettura, secondo me, da non perdere; ma allo stesso tempo una forza da maneggiare con attenzione. Pare che ne abbiano tratto un film. Non credo sia stato facile, o addirittura possibile, rispettarlo fino in fondo. Certo, con Fassbinder dietro la macchina da presa...

giovedì 4 gennaio 2018

Coming apart (M.M. Ginsberg, 1969)


Joe, uno psichiatra tormentato ("spaventato", egli si definisce all'inizio del film), ossessionato da una precedente relazione, e dalla dubbia moralità, filma di nascosto i suoi rapporti con varie donne, in un appartamento di una non meglio precisata città americana.

Coming apart (1969) è un film quasi sperimentale di Milton Moses Ginsberg, che ha una trama piuttosto evenemenziale, costituita da tutta una serie di incontri senza un apparente filo conduttore, improntata allo stile del cinéma vérité, in voga negli anni Sessanta. Potrebbe assomigliare allo schedario d'un poliziotto, affollato da figure molto variegate. In comune con le collezioni di schede-referto, vi è la tensione epistemologica dell'inchiesta, il complicato ma ineludibile rapporto con la realtà. 

Ciò che rende il film degno di nota (e di una visione) è la messa in scena, il ruolo della macchina da presa (e dunque il punto di vista proposto allo spettatore), e gli aspetti tecnici in generale: il montaggio sincopato, sporco, coi ritagli di pellicola messi in evidenza; la fotografia in bianco e nero, granulare, lo-fi; il sonoro: interrotto, disturbato da frequenti click, feedback, rumori di fondo. Anche i discorsi e i ragionamenti sono afasici, tautologici, talora ridotti a espressioni onomatopeiche o primitive.   

L'idea che ispira tutto il film è quella di far coincidere il materiale amatoriale girato da Joe con il film stesso, conferendogli una efficace illusione di autenticità, di (im)mediatezza, d'improvvisazione. Molto interessante è il punto di vista scelto dal regista, il quale riprende gran parte dell'azione con una camera fissa, rivolta in direzione d'un grande specchio appeso dietro un divano. 

Ciò significa che i personaggi vengono sistematicamente duplicati, sdoppiati. Se ne vede il corpo, ma anche il riflesso, suggerendo metaforicamente il collasso della distanza tra scena e retroscena, tra maschera e volto, tra pubblico e privato. 

Come scriveva J.L. Borges, "gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini". E qui non manca nessuno di questi elementi. Tutto però passa da una tecnologia che vorrebbe ambire all'autenticità documentaristica, ma è condannata al fallimento. È infedele. Come il promiscuo protagonista. 

Registratori, microfoni, cavi, macchine fotografiche, pellicole dominano la scena. Il bel finale neoluddista rompe l'incantesimo e la tensione, e lo spettatore può ritornare alle finzioni della vita quotidiana, dopo uno sforzo non indifferente. La sensazione è di aver fatto un bagno nel rumore. Un rumore che si nota solo quando è finito. Ma è un paradosso: la verità esposta, infatti, non può che essere "rumorosa"; tolto il rumore, tuttavia, il noumeno (e il senso) non c'è. E anche il corpo nudo, nudo non lo è mai. 

Coming apart è un film interessante, abbastanza hippie, ma anche premonitore, recitato molto bene (soprattutto da Rip Torn), in quanto apparentemente non-recitato; adatto a chi vuole uscire dalla comodità di certe visioni stereotipate. Se lo spirito è questo, il film non delude e può regalare più d'una (buona) vibrazione. 3/5